RENZO FRANCABANDERA | Il Festival di Avignone, nello spaccato della seconda settimana di spettacoli, ha proposto tre lavori di danza molto diversi fra loro ma legati ad una corporeità che nega la coreografia classica per ricercare l’essenza del messaggio in qualcos’altro, perfino nel pubblico.
Eh si, se qualcuno cercasse il cigno nero ad Avignone non c’è dubbio che resterebbe deluso. Se poi magari lo avesse, per scelta incauta, cercato fra gli spettacoli di Meg Stuart o Xavier Le Roy in cartellone, sarebbe magari uscito prima della fine urlando.
Più improntata, per esempio, a un punto di vista ideologico la proposta di Rachid Ouramdane, danzatore franco-algerino, interessato alla dimensione storica degli avvenimenti, che propone un lavoro in cui il problema coloniale di una Francia che ancora non assorbe al suo interno la dimensione del dialogo.
Sotto una luce lampione pendente, quasi gigantesca lampada da scrivania ad illuminare in rotazione il palcoscenico, l’artista propone una serie di visioni accompagnate dalla musica eseguita dal vivo dal pianista e polistrumentista Jean-Baptiste Julien. Accompagnato da foto di un astratto dittatore in posa, l’artista, partendo dal saluto romano, sviluppa una narrazione dolorosa in cui il paragone implicito è quello fra il centro d’accoglienza e il lager, il campo di concentramento, con l’enorme lampada girevole che ad un certo punto assume la sembianza di faro della torretta di controllo.
Il lavoro ha un’idea, ma è la performance sonora a convincere di più.
Più intimamente violento, ad esempio, l’insieme di quadri naturali cui dà vita Xavier Le Roy, coreografo che ha scoperto la danza assai in là nel tempo, in concomitanza con i suoi studi di biologia molecolare e cellulare, e che ha poi deciso di abbinare i suoi studi al movimento e all’idea performativa. Sono proprio l’universo vegetale e animale ad offrire spunto anche per Low Pieces. Ad attenderci in sala, seduti al bordo del palcoscenico i dodici danzatori, vestiti di abiti sportivi, e pronti, appena tutti seduti, a intavolare una discussione introduttiva, ma quarta parete non si dissolve, tanto che ad un certo punto cala il buio totale per diversi minuti. Al ritorno delle luci la scena è quella di un quadro vivente, con i protagonisti nudi, a creare composizioni dal chiaro riferimento al mondo vegetale e animale, con alcuni quadri di intensa forza, come un branco di felini selvatici, coreografia a cui prendono parte tutti i performer.
A noi è piaciuto di più l’ultimo quadro, in cui come pietre in un giardino zen, questi corpi rannicchiati si adagiano sotto un vento-respiro. Buio. Si odono di nuovo le voci dei performer, pronti a riprendere il dibattito, ma al buio, per quindici minuti, alla fine di tutto. Nessuno, di fatto, può alzarsi e andar via. La sensazione di paradossale e artistica prigionia serpeggia nei vari interventi del pubblico.
Le Roy ci dice che il sopruso fra gli umani è pratica assai diffusa, dunque perché scandalizzarsi?
Chiudiamo con Meg Stuart e il suo Damaged Goods, ulteriore capitolo della sua riflessione sul corpo e la sua posizione nella società.
Violet è un’indagine sul limite dello sconosciuto, limitare che secondo la coreografa ha proprio il colore viola. Il viola non è solo un colore, secondo la Stuart, ma un luogo, il luogo che anticipa lo sconosciuto, l’ultravioletto, inteso come ultra mondo.
I cinque ragazzi in scena, aspettano il pubblico al fondo della sala, poi iniziano movimenti sincopati e tutti diversi, ma ripetuti all’ossessione, mentre un percussionista, armato (è il caso di dirlo) di computer, inizia a diffondere suoni di sapore industrial via via più forti. La sensazione di ambiente rilassato lascia subito il posto al più atroce disagio. Il rumore continua ininterrotto, i movimenti via via più veloci e meccanici. Non pare esserci salvezza. Solo dopo quaranta minuti di colpo piomba il silenzio. Nel frattempo diversi sono andati via. Ma il silenzio dura poco e tutto riprende forte come prima, nevrotico e iperteso.
Usciamo, non possiamo negarlo, con un senso di liberazione. Forse il lavoro non era concettualmente brutto, ma in verità non l’abbiamo capito, e siamo rimasti storditi ad attenderne la fine come il pugile suonato aspetta il gong. La fine, come quegli interminabili round in cui si viene presi a sassate dall’avversario, pareva però non arrivare mai e guardavamo con invidia i coraggiosi che, come prassi qui ad Avignone, si alzano e vanno via senza problema, senza reverenza di sorta.