MARIA CRISTINA SERRA | Un ponte culturale unisce Delhi con Parigi al Centro Pompidou. Fino al 19 settembre una mostra getta uno sguardo penetrante sulla più grande democrazia del mondo, i suoi fermenti e i continui mutamenti. Una rivisitazione della globalizzazione che mette in luce la profonda spiritualità e l’integrità estetica indiana dalle radici antiche

L’India del nostro immaginario, con i suoi incantesimi e le sue contraddizioni, la beatitudine e la dannazione; i colori accesi e suadenti, gli odori penetranti e i suoni avvolgenti, una realtà “altra” dalla nostra misura occidentale, ma essenziale e illuminante per cogliere le distorsioni e le ambiguità del nostro presente, ci sembra più vicina dall’alto della terrazza al sesto piano del Centro G. Pompidou, dove è allestita la mostra “sperimentale” “Paris-Delhi-Bombay”.Sullo sfondo di un luminoso cielo azzurro di un’estate ancora piena, le guglie delle cattedrali e la siluette della Tour Eiffel delineano un orizzonte senza confini che invita al dialogo e alla comprensione. Le opere di 30 artisti indiani e 17 francesi indagano la contemporaneità di questa “terra di contrasti” attraverso 6 tematiche: la politica, l’urbanizzazione, la religione, l’identità, l’artigianato, il privato e i rapporti familiari, con un continuo alternarsi di argomenti e di visuali che ripercorrono la memoria storica.

Dal passato coloniale alla conquista dell’indipendenza, all’accelerazione di un liberalismo economico, sovrapposto ad arcaici rapporti sociali e culturali, basati sul sistema delle caste. Basta varcare la porta a vetri che immette alle sale della mostra per entrare nel tempio circolare di “Tara”, blu-arancio: realizzazione pop-artigianale dall’aspetto spettacolare e dalle armoniose proporzioni di Ravinder Reddy. Al centro della pedana, una monumentale testa di donna, dipinta in oro è un omaggio alle donne indiane, elevate a rango di Dea, le labbra carminio, gli occhi bistrati in nero che non cercano risposte, ma pongono interrogativi, i capelli intrecciati con fiori: è una perfetta sintesi fra scultura religiosa classica e immaginazione popolare. All’esterno, pannelli con foto,documenti, e didascalie, raccontano la cronologia politico-sociale dell’India dal 1947 ai giorni nostri, indicando così le possibili direzioni da scegliere per iniziare il percorso espositivo.

La stanza di “Alì Baba” è piena di lucenti utensili e batterie da cucina di infinite forme e grandezze, in acciaio inox, che ricoprono in ordinate file le pareti e pendono dal soffitto. Un paradosso di perfezione e opulenza monocroma, contrapposta al colore e al disordine della quotidianità, resa in forma straziante e poetica da Hema Upadhyay, che interpreta la Bidonville di Dharavi a Bombay, la più grande e fatiscente dell’Asia. “Think left, think right, think low, think tight” crea nel visitatore un senso di oppressione realistico. evocando le disumane atmosfere di vita dei suoi abitanti, che sono anche riusciti a ricreare un’economia parallela, come forma di sopravvivenza.

E’ un labirinto inaccessibile di architettura arabesca e argentata l’installazione “Six Cages” di Sudarshan Shetty, ispirata all’arte mongola: sei portali, finemente intagliati, collegati fra loro da specchi che riflettono i peccati capitali, ci invitano a riflettere sul senso profondo dell’esistenza. Come una rivisitazione della galleria degli specchi di Versailles, Bharti Kher con “Reveal the secrets that your seek” decora le pareti della sua “stanza” con 24 specchi scheggiati, dalle cornici dorate in stile, ricoperti da centinaia di minuscoli “Bindi” (il terzo occhio delle donne maritate), collegati fra loro da fili regolari e paralleli, che formano un velo nero di suggestiva bellezza. Il riflesso offuscato rimette ironicamente in discussione lo scorrere del tempo e il rapporto tra l’individuo e la società.

Tradizione e industrializzazione convivono con le loro discrepanze, per Sokshi Cupta. Il suo tappeto scuro di gomma e metallo, “Freedom is Everythings”, riproduce motivi decorativi dei tappeti tradizionali, attraverso materiali di recupero. La libertà sessuale costituisce ancora un tabù nella società indiana e Thukral & Tagra la demistificano, riscrivendo con la delicatezza dei rosa e verdi pastello una scena erotica, ispirata alle sculture dell’antico tempio di Khajuraho. Il tema della comunità ancestrale trasgender Hijras, con la precarietà della loro esistenza a cui fa da contrappunto il loro ruolo augurale che svolgono nelle cerimonie, ispira a Kader Attia un filmato che spazia anche sui rapporti fra tradizione e modernità. “Silenzio” suggeriscono le tre leggiadre sculture rosse, composte da ossa umane, “Morbid trinkets”, di Anita Dube, quasi dei talismani erotici, adornati da paillettes, perle e merletti, che sottintendono una sottile tensione politica e poetica.

Di grande fascino è lo sguardo indiscreto “Le regard” in una camera da letto borghese, tipicamente parigina: letto a baldacchino, caminetto, tende di taffetà che incorniciano la grande finestra, che si affaccia sulla strada. Leandro Erlich fa scorrere un filmato della folla vociante di una via di Bombay oltre il vetro. L’individuo è così “uno fra tanti”, in ogni luogo: lo spazio privato si sovrappone a quello pubblico, il reale e l’immaginazione si confondono con effetti stupefacenti. “Please do not touch”, dietro l’aspetto innocente si nasconde il pericolo. Le tre ghirlande tradizionali, usate nelle cerimonie indù, appese al muro e appoggiate su una sedia bianca da Sunil Gawde sono formate da sottili lamelle di rasoio, dipinte in color sangue, a rievocare la tragicità della violenza del fondamentalismo religioso e l’assassinio di Rajiv Gandhi.

E’ emozionante il filmato di Camille Henrot, “Le songe de Poliphile”, che esplora i miti e gli archetipi comuni tra Oriente e Occidente. Suoni acuti e spezzati, rulli di tamburi e sirene, fanno da sottofondo ai colori densi e ai bianco-neri. Folle pressanti e asettici laboratori di ricerca, danze tribali e templi, in un montaggio strepitoso di immagini che si susseguono veloci, legate fra loro dalla “simbologia del Serpente”, fra paure reali e inconsce, malattie e guarigioni, magie e medicina.

L’ironia e la gioiosità onirica di Pierre & Gilles riempiono con una fantasmagoria di colori il loro spazio. Una ventina di opere che ripercorrono il fascino e l’estetica della cultura popolare indiana, la cinematografia di “Bollywood” e la ritualità delle cerimonie religiose, svolgono il racconto delle tante facce dell’India, sospesa fra tradizione e innovazione.

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