MUnch pompidouMARIA CRISTINA SERRA | Un’emozionante mostra al Centre Pompidou (“Edvard Munch, l’oeil moderne”, fino al 9 Gennaio 2012) pone l’accento sugli aspetti meno conosciuti dell’artista norvegese, solitamente identificato come un solitario, ripiegato sull’universo interiore, ma che invece viveva pienamente la realtà che lo circondava

Edvard Munch nasce a Loten (Oslo, Norvegia) nel 1863, nell’anno in cui Manet dipinge L’Olympia”, tela icona della modernità, e muore ad Ekely nel 1944, appena in tempo per assistere ai primi colpi del crollo del regime nazista, che nel 1937 aveva dichiarato la sua arte “degenerata” e l’aveva bandita dai musei tedeschi. Già nel 1892, la sua storica mostra a Berlino aveva suscitato scandalo, ma allora la forza espressiva della sua pittura “intima”, a tratti indefinita, che scavava nel primordiale per far affiorare la sostanza morale dell’individualità, fu poi accettata come innovatrice visione espressionista della realtà e il suo audace linguaggio un’ anticipazione della Secessione.

La sua vita, fatta di frammentarietà e di tensioni, evoca una fragile corda lanciata in aria, che per caso si intreccia con i processi tortuosi della Storia, condividendone ombre, inganni, dissoluzioni e visioni, in un tentativo incessante di riunire i tasselli scomposti di un autobiografico mosaico interiore, lacerato fra pulsioni di amore e morte. Il bisogno di “tirare fuori le impressioni, che agitavano la mia interiorità” lo spinsero verso un’estrema condizione esistenziale, in cui ogni “impossibilità” diventa rivelazione universale, un varco tra le fessure incolori della quotidianità, per far affiorare la consapevolezza cosmica del dolore e smascherare l’inerzia e l’ipocrisia che schiacciano il “corpo sociale”.

“La mia pittura è autoconfessione”, confidava, “un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza e di aiutare gli altri a vedere chiaro”, immagini soggettive che si riempiono di oggettività.L’interesse alle trasformazioni sociali e alle difficoltà della vita quotidiana degli umili e del mondo operaio occupano un’intera sezione della mostra. Sono una rivelazione i suoi Lavoratori “fra la neve” e quelli che “tornano a casa”, plumbei cromatismi e dinamismo cinematografico, che quasi li spinge fuori dalla tela. Oltre che sulla modernità del suo peculiare Espressionismo, che evolverà nell’Informale, la mostra è una indagine attenta anche alla dimensione più sperimentale della sua arte, negli ultimi anni indirizzata verso la fotografia, il cinema, il teatro e la stampa, in perfetta armonia con le sollecitazioni e lo spirito del tempo. Le parole dell’artista “che cosa è l’arte in realtà? L’espressione di un’insoddisfazione nella vita; il segno di un desiderio vitale di creazione; l’eterno scorrere della vita; la cristallizzazione” ci accompagnano attraverso le 9 sezioni tematiche, che evidenziano gli elementi di continuità di questo alchimista di immagini, capace di coniugare il consueto con lo straordinario, l’aneddotico con il metafisico, e le evoluzioni successive, in un intenso percorso teso a realizzare la sinteticità delle forme.

Così i temi del passato e quelli del presente si raggomitolano come i fili di un’unica matassa a cui non serve incontrarsi in un centro statico, perché si riannodano e si estendono in un contrasto visionario e dinamico. “Il bacio degli amanti”, possibile punto di partenza per comprendere la sua poetica, riconferma negli anni la scelta stilistica delle linee curve, sinuose, continue, proprie dell’Art Nouveau e il senso circolare del tempo, che rifugge dalle strettoie della linearità. I colori caldi e pastosi avvolgono le figure, mentre i visi degli amanti si confondono simbolicamente in un’unica anima, tradendo la paura per la perdita dell’individualità. “Il tavolo dell’operazione” è una spietata trasposizione della nudità interiore, Il corpo spoglio e inerte nel freddo bianco del lenzuolo arrossato dal sangue, circondato dall’indifferenza dei presenti, taglia in diagonale lo spazio psicologico, creando un vortice destabilizzante in chi guarda, accentuato dalla stesura piatta e distaccata del colore.

Non serve decorazione per descrivere l’alienazione, la figura si integra nel suo sfondo annullando ogni gerarchia. “La malattia, la follia e la morte sono gli angeli neri che vegliavano sulla culla alla mia nascita”, è la pesante eredità familiare che Munch si portò dietro per tutta la vita. L’agonia della sorella Sophie può avere le tinte più intense e le forme più sintetiche degli anni della maturità o rimanere più in ombra, diluita nei contorni per lasciar correre le emozioni dipinte in gioventù, come nella tela del 1896, dai cupi grigi-marroni, “grattati”, incisi, resi drammatici dal pallore del viso diafano, perché “l’arte è il sangue del cuore umano”. L’amore per il teatro, per il quale crea manifesti e scenografie, emerge in molti quadri, nei quali ridefinisce simboli e spazi “chiusi”, come in “Gelosia” o “La camera verde”, in sintonia con le sperimentazioni del “Teatro di camera” – Kommerzspiele. L’artista collaborò intensamente con i drammaturghi Strindberg e Ibsen, che ritrasse come al centro di un palcoscenico fra drappi scuri. Da una finestra s’intravedono colorate silhouette: i paesaggi dell’anima e quelli della strada a confronto. L’interesse per la fotografia e per il cinema è travolgente per un artista della sua sensibilità, che scopre le nuove potenzialità della tecnica. Tanto che verso il 1930 un’emorragia oculare, alterando definitivamente la sua percezione visiva, lo spinse a sperimentare un nuovo linguaggio astratto per definire le coincidenze fra sé e il mondo.

Le possibilità visive erano già state ampliate dall’amore per la macchina fotografica e dall’uso del grandangolo, che era diventato il suo occhio clinico, attraverso cui catturare il tempo, rileggere la dinamica dello spazio e, soprattutto, proiettare all’esterno la sua psiche. “Non penso ciò che vedo. Penso a ciò che ho visto, le speranze che ho vissuto, quello che ho sofferto”. Gli autoscatti eseguiti durante gli otto mesi trascorsi nella clinica del Dottor Jacobsen, a Copenhagen, per curare la depressione del 1908, sono un’autobiografia lucida e commovente che. prosegue con la sezione dedicata agli autoritratti, in una dialettica vibrante fra opacità e luminosità, a scandire le tappe della sua vita: inquietudini della giovinezza, cupezza della maturità, malinconia della vecchiaia. “Abbiamo vissuto la morte fin dalla nascita. Ora non ci resta che viverre la più strana delle esperienze: la vera nascita che si chiama morte”.

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