istruttoria-teatrodueRENZO FRANCABANDERA | E’, a dire il vero, inspiegabile come questo spettacolo, che da quasi trent’anni gira l’Italia, per una delle produzioni storiche del nostro teatro, quella di Teatro Due di Parma del classico di Peter Weiss diretto da Gigi Dall’Aglio, non abbia mai avuto alcun riconoscimento, che ora sarebbe magari “alla carriera”, ad honorem; nessuno, se non quello del pubblico che da decenni continua ad uscire dalla sala sgomento e affascinato.
Il motivo dello sgomento è facile da intuire, trattandosi di una messa in scena di un testo ispirato, nei suoi 11 quadri, alla tragedia dell’Olocausto, al resoconto crudo e terribile delle torture dei campi di sterminio nazisti. Eppure non sono pochi gli spettacoli sul tema che restano superficiali. Se questo allestimento continua a girare, sempre diverso e sempre uguale, e a rimanere scolpito negli occhi di chi lo guarda, un motivo ci dev’essere.
Lo spettatore viene portato fin dall’inizio in una dimensione voluta di falsità teatrale, accedendo a teatro dal retro del palcoscenico, dove assiste al trucco degli attori entrando nei loro camerini a vista, mentre scorrono parole di Pasolini e l’atmosfera è di irreale attesa.
Ci guardano attraverso gli specchi gli storici interpreti Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Pino L’Abbadessa, Milena Metitieri, Tania Rocchetta (sostituita nella replica cui abbiamo assistito da Bruna Rossi) prima di apririci una porticina attraverso la quale entriamo in palcoscenico. Siamo costretti in piedi, in un recinto di corde sul palco, mentre alcuni attori in controluce in platea, con i fari che puntano giù, su di noi, iniziano a raccontare i momenti della deportazione. E dopo poco capiamo, iniziamo a sentire la sensazione di essere ammassati, uno sull’altro, costretti, impossibilitati a vedere tutto. Sentiamo ma non vediamo, qualcuno cerca di vedere ma è come trovarsi in un caro bestiame, dove la coscienza di sè piano piano cede il posto ad un’inspiegabile sentimento di paura e disagio.
Questa capacità di regalare allo spettatore la tragica ma compiuta e tangibile sensazione di essere in quello che assiste, di come il passo fra la realtà e la finzione sia una porticina, continua in questo lavoro per tutto il tempo, fino alla fine, fino a quando la luce blu gelida del freddo siderale degli inverni nei campi di concentramento e il gas avvolgono lo sguardo, sulle note delle musiche di Alessandro Nidi affidate all’esecuzione dal vivo di Davide Carmarino.
Tanto è stato scritto di questo spettacolo (ovviamente chiamarlo spettacolo porta in sé una giusta dose di cinica considerazione ma anche un’altissima e tragica significazione di quello che il teatro è, nella sua doppia faccia di finzione e mimesi del vero), quello che sento personalmente di aggiungere è che il lavoro di questo storico gruppo è proprio la testimonianza “altra” di come il nostro tempo abbia bisogno di un nuovo ricordare, di un ricordare con precisione. Che è diverso dal ricordare in modo didascalico e meccanico.
Perché il copia e incolla del tempo digitale mangia tutto e oblia in un istante, mentre L’Istruttoria di Teatro Due è analogica incarnazione, militanza dell’essere, partigiana resistenza che in quanto tale non abbisogna e non richiede applausi, ma mira a risvegliare, a dare un pugno all’in-cosciente dormiveglia nel quale siamo piombati. Mai abbastanza spettatori avrà questo lavoro, per arrivare dove dovrebbe. Ma guai a coloro che rinunciano a testimoniare, a far memoria.

L’istruttoria di Teatro Due è un segno di civiltà, esattamente come il mandare un libro a mente in Fahrenheit, come qualsiasi cosa che sfida l’ottundimento non per farsi compiacimento di sé, ma per il ricordare. Agli altri e a sé. Che compito stancante e disperante è a volte testimoniare la memoria, la cognizione del dolore. Usciamo.

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