MORDOJRENZO FRANCABANDERA | E’ un festival senz’altro ricco di spunti e punti di vista ampi sulla scena teatrale internazionale e non solo quello di Teatro a Corte, iniziato il 6 luglio e che durerà ancora quindici giorni nelle magiche ambientazioni delle dimore sabaude in Piemonte. Uno spaccato di grande interesse di alcune dinamiche già presenti ed altre venture della scena.

Non ripeteremo quindi quanto di questo festival già è consolidato nella mente di operatori e appassionati, in merito allo spirito di valorizzazione del patrimonio artistico presente sul territorio, e nel dialogo, nello scambio aperto, nel ponte verso altre culture, altre nazioni.
Se l’anno scorso erano state alcune compagnie russe e della comunità belga vallona a tenere banco, quest’anno l’offerta è ancora più ampia, con il consolidarsi delle partnership francesi e belghe in particolar modo all’interno del mondo della danza, quest’anno un occhio di maggior interesse va alla scena performativa e di teatro/danza, in quella particolarissima intersezione con l’arte circense cui il Festival è sempre stato attento.
Nuove realtà della scuola britannica e mitteleuropea, e giovani maestri dell’arte dei muppets, come il già celebre in tutto il mondo, Duda Paiva.
Il primo fine settimana, nella giornata di domenica 8, già dalle prime ore del giorno, ha portato ad un subbuglio generale, con interventi delle forze dell’ordine chiamate all’intervento da alcuni cittadini allarmati dalle installazioni in Piazza Castello. Casette sigillate e chiuse a lucchetto, dall’interno delle quali provenivano voci umane. Non pochi i passanti e visitatori del castello reale che hanno chiesto l’intervento della polizia per segnalare.

E’ stato questo microcosmo surreale di reclusione e affermazione di un sé prigioniero a fare da sfondo alla performance di danza di Peter Jasko, artista slovacco che lavora ai confini tra il circo e la danza, cofondatore del collettivo di danza Les SlovaKs, e allievo di Anna Teresa de Keersmaeker e con collaborazioni internazionali come quelle di Cherkaoui, Barberio Corsetti, e molti altri.
Venti minuti di grande intensità, con il ballerino portatore di un linguaggio del corpo originalissimo e sporco, figlio della scuola belga che dalla Keersmaeker a Platel ha cambiato la danza in Europa negli ultimi trent’anni.
Si muove sul pavimento di sampietrini della piazza il danzatore, tenendosi in un equilibrio mai stabile, camminando malfermo e cercando il punto di flesso del sentimento.
Una solitaria dichiarazione d’amore, un’attestazione di presenza vitale, che si divide in due parti, la seconda delle quali inizia con il performer impegnato anche in un’esecuzione canora. Forse è questa la parte un po’ più “ordinaria e zuccherina” anche perché la melodia, giocata su armonici e scale più facili all’orecchio, stride un po’ con quel corpo tormentato che per i quindici minuti precedenti e per i quindici successivi cerca di liberare l’anima dagli spasmi del corpo, dando vita ad acrobazie impegnative e rese ancora più complicate dal pavimento della piazza. La sensazione finale è quella di un poeticissimo clochard della danza, un artista più interessato alle disarmonie e agli equilibri fragili. E forse proprio per questo non immune da fascino.

Quella seguita di lì a poco nelle sale della Cavallerizza Reale è stata una performance dal sapore particolarissimo, uno spettacolo che racchiude anni di ricerca dell’artista Jeanne Mordoj e il suo poetico interrogarsi sulla femminilità, fino a prenderne gli estremi più grotteschi, come la donna barbuta che fa da pretesto giocoso di questo Eloge du Poil.
La donna lavora sul tema dell’inaccettato, dell’innominabile, del bordo fra essere e non essere. Il suo spettacolo è un condensato di danza macabra e gioco fisico, in cui persino i teschi degli animali della foresta dicono la loro, e un numero con dei tuorli d’uovo getta il pubblico ad indagare il sentimento della vita e del suo stato così fragile. A ripensarlo a distanza di qualche giorno, si colgono alcune delle implicazioni più interessanti dello spettacolo dell’artista, che si finge barbuta per tutto lo spettacolo e che finisce con un rito di auto sepoltura, passando fra ispirazioni neogotiche e tutto il tema del grottesco.
Chiude la serata l’atteso spettacolo di Duda Paiva nel cortile del Castello di Moncalieri. L’artista è accompagnato in scena da un danzatore e mimo di primo livello, Javier Murgarren, e svolge in questa sorta di passo a due (perché anche a danza, ad ottima danza, si assiste durante lo spettacolo) un’indagine ispirata al personaggio della Malvagia strega dell’Ovest, una delle protagoniste de Il mago di Oz.
Nello spettacolo la ricerca delle scarpette rosse da parte di una sorta di essere non umano che cerca identità e coerenza di sé all’interno del mondo delle fiabe, di cui si intravedono spezzoni, è il motivo che silenziosamente annoda la vicenda fin dall’inizio quando due chirurghi lo riportano in vita. Questa sorta di ET che reclama un cuore tutto per sé, finisce, per essere fatto a pezzi, per incontrare brandelli di Cappuccetto rosso, per prendere parte a pic nic acidi in stile Alice nel paese delle meraviglie, per diventare mezzo cane e mezzo extra terrestre, in un gioco di muppets di cui il pubblico apprezza la finezza, e di cui Duda Paiva non nasconde alcun segreto, permettendo a tutti a fine spettacolo di avvicinarsi e toccare le sue creature di gomma piuma.
L’esperimento concettualmente è chiaro, la fiaba decostruita è servita come portata principale. Rispetto ai lavori precedenti di Duda Paiva qualche passaggio logico (o illogico, a seconda) non funziona però perfettamente e l’ingranaggio scenico non si incardina allo stesso ritmo e con la stessa intensità dall’inizio alla fine. La sensazione, in fondo a tutto, che alcune parti dello spettacolo siano un po’ lunghe o insistite resta, come pure il fatto che alla base di tutto ci sia un presupposto intellettuale forse troppo ambizioso.
Non che si voglia sostenere che con i muppets non si possa fare altissima filosofia, ma è onesto dire che in questo caso l’altitudine raggiunta non è quella delle vette cui lo stesso artista ci ha abituati con altri spettacoli. La complessità in fondo è una sfida, ma Duda Paiva è tenace creatore e confrontarsi con difficoltà di elaborazione concettuale sono un passaggio necessario per i grandi artisti.