RENZO FRANCABANDERA | 4:48 Psychosis è la cronaca di una caustica, a tratti persino ironica, e disperante via crucis verso il suicidio. La protagonista di questo testo di Sarah Kane è forse la stessa Sarah Kane, alle prove generali di quello che sarà poi il suo destino, il presupposto concettuale della scelta finale della giovane drammaturga britannica, snocciolato come un rosario dell’intimità incomunicabile, dove lucidamente lo scarto fra l’individuo e il mondo esterno diventa indagine precisa sulle ragioni di un abbandono cosmico, leopardiano; stessa incisiva indagine, ma lucidità e linguaggio tutti contemporanei.
Come si fa a descrivere un testo così? Si immagini il flusso di coscienza di quelle notti in cui ci si sveglia nel cuore degli incubi senza riuscire più a dormire e si inizia a mettere insieme quelle che definire paranoie sarebbe troppo semplice. In realtà è rassegnata evidenza di essere una vita fuori tempo massimo, il cui senso è nella lenta e progressiva constatazione di non poter più sovvertire l’inerzia della fatale partita a carte con l’esistenza, quando fra i tarocchi viene fuori il segno della fine.
Cosa serve per portare in scena un testo del genere? Apparentemente pochissimo. Sicuramente nulla dal punto di vista scenico. Per l’interprete, invece, c’è bisogno di una compenetrata capacità di narrare l’assedio alle proprie sicurezze da parte del loro nemico più atroce: la propria spietata intelligenza armata dall’implacabile sventatezza dell’età giovane, più incline a gesti estremi.
Sarah Kane racconta meglio di tutto lo scacco matto del cervello sul corpo. Un’esistenza così, se non spenta per volontà, si sarebbe forse estinta per una di quelle malattie hameriane che solo la simbolica volontà autodistruttiva è capace di generare.
La buona traduzione di Barbara Nativi porge all’interprete genovese Elena Arvigo, attrice poco più che trentenne con qualche esperienza televisiva nelle fiction e una formazione ibrida fra danza e teatro, un testo di spilli e vetri taglienti da indossare con la gelida eleganza di una modella, abitante di una contemporaneità metropolitana e distratta.
Fondatrice nel 2011 della compagnia “SantaRita Teatro” insieme a Valentina Calvani, la Arvigo si affida alla Calvani che la dirige in un ambiente scenico forse inutilmente pretenzioso, dove la parete del fondo è di lettere mai lette, o mai scritte, una carta da parati di occasioni mancate. Alle estremità anteriori della scena due lampadari d’ottone che tiepidamente illuminano i movimenti nel proscenio. Il pavimento è terra e pavimento dissestato. Alla sinistra una serie di bussolotti sferici da estrazioni del lotto, adagiata sui quali la Arvigo inizia lo spettacolo cercando forse l’ultimo numero della sorte: ahimè, l’utilità scenica di questo oggetto, come di altri simboli di sapore didascalico (gli specchi rotti che pendono dal soffitto, per esempio) e lasciati un po’ qui e lì, è praticamente nulla.
Per il ritorno su questo allestimento che ha segnato la nascita della compagnia, l’interprete del monologo regala un’interpretazione particolarmente focalizzata sull’interpretazione vocale: questo aspetto della messa in scena è di particolare pregio, perché è la componente del travaso fra parola e teatro di maggior intensità. La Arvigo pone la sua eterea presenza al servizio di uno sforzo di concentrazione robusto, in cui la parola riesce ad essere donata al pubblico con una serie di variazioni che fanno si che non vi sia mai un adagiarsi sui toni della noia. Minore è l’esito sulla parte fisica, dove l’immersione emotiva nel personaggio non arriva a grandi profondità, un po’ come le tonalità vocali più basse, che restano le più interessanti ma le meno indagate.
E’ evidente che il timore tanto dell’attrice quanto della regista sia quello di evitare di tratteggiare un personaggio dal portato isterico e macchiettistico, e questo riesce.
Riesce invece meno il racconto fisico di un’esistenza che ha superato il bilico, che ha già deciso di tifare per l’ineluttabilità della sconfitta. Il motivo di ciò risiede nella ricerca del corpo e nei movimenti di scena di un’interlocuzione con il pubblico che è in realtà profondamente in antitesi con quel progressivo tagliare i ponti che la drammaturgia racconta.
E’ così troppo aggraziata, in quella elegante canotta rossa, la Arvigo, forse più nella parte di una morte borghese e matura à-la- Flaubert, mentre questa è una morte anche di gioventù intellettuale, algida e calcolatrice ma anche di incosciente acerbità. E’ proprio l’antitesi fra analisi matura e animalità giovane il cuore della drammaturgia. La prima è ben indagata, la seconda meno, se non in una parte recitativo-vocale che però alla fine suona un po’ virtuosistica, a discapito della ricerca delle tonalità sonore più gravi, le più interessanti della Arvigo, cui la regia (che peccato!) rinuncia. Non è l’unica pecca dell’occhio esterno, che forse manca di un’idea forte, lasciando tutto sulle spalle dell’interprete. A volte, è innegabile, l’aspetto un po’ aiuta. In questo caso no: la Arvigo ha il peccato originale di avere una dolcissima bellezza senza sfregi, un candore senza cicatrici, almeno apparenti.
E’ così che l’obiettivo di rendere il testo della Kane è centrato solo in parte, non riuscendo fino in profondità a rendere l’idea di una morte sì annunciata, ma non di un’esistenza rassegnata, ancorché segnata, profondamente segnata. Come anche quella della stessa Sarah Kane, la cui disperata passione per il non-essere non riusciamo a cogliere fino in fondo.
Di seguito il trailer video dello spettacolo

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