RENZO FRANCABANDERA | Sono diversi anni che cedo alla dolce malattia che mi prende nel seguire gli spettacoli diretti (e praticamente sempre anche interpretati) da Roberto Trifirò. Un po’ perché so a cosa vado incontro, quasi me l’aspetto. Eppure non ho dubbi.
So che non sarà mai qualcosa di “divertente” nel senso banale del termine. So che quasi sempre si tratta di operazioni sofisticate, di teatro che cerca se stesso negli anfratti meno battuti, nelle drammaturgie meno banali, in un seguirsi di monologhi la cui testualità non lascia dubbi circa la volontà di Trifirò di indagare, anche in solitario se serve, nell’ostinazione di non cedere alla miseria culturale delle sale, sul rapporto fra l’umano e la parola scenica.
E così se gli autori indagati non sono mai sconosciuti, Shakespeare, Adamov, Pinter, sono spesso i testi a sorprendere, come il notevole e purtroppo poco circuitato Riccardo II, un monologo assai bello di due anni fa ma che di fatto ha fermato le sue repliche all’Out Off dove ha debuttato.
Al di là dello spazio che anche al Franco Parenti l’attore ottiene, è di fatto l’Out Off la casa delle sue sperimentalità (l’anno scorso in via eccezionale il Sala Fontana per un Dostoevskji, non riuscitissimo però).
E’ quindi con queste consapevolezze, con la certezza di un approccio che in un’ideale tavola degli elementi teatrale non si posiziona mai ai primi posti, fra i gas leggeri, che entriamo in sala per il Vecchi Tempi di Pinter (1971).
Accompagnano Trifirò due attrici di buona esperienza, come Maria Ariis e Paola Giacometti. Il testo è noto, è forse solo a prima vista un dialogo a tre, rivelandosi ben presto un duetto con un’ospite persistente, come la memoria del suo vissuto. Ma quello che a tratti Trifirò pare suggerire, e la cosa è di un certo interesse, ancorché non sorprendente viste le sue predilezioni, è che si tratti di un molologhe con due figure femminili di cui sovviene il ricordo. Nulla infatti, nella drammaturgia, concorre mai a ricostruire l’unità spazio tempo, e anzi, ogni qual volta pare  due figure si consolidino nel loro dialogo, ecco che una battuta pare dissolverne una, rivelarne la sua ectoplasmatica consistenza. Insomma tutto quello che si vede forse non c’è, mentre quello che sicuramente c’è è ciò che non ha presenza, ovvero la memoria.
E’ infatti la memoria la protagonista del testo, il ricordo di un amore, di una vita trascorsa, di relazioni di coppia, immerse in una luce di abbacinante solitudine presente e di consistenza passata.
Trifirò racconta Pinter con le luci e le pose di Hopper, è vero. Numerose sono le citazioni di pose dei quadri del maestro americano delle solitudini da bar, con un bicchiere di whiskey a tenere compagnia al sovvenire dei ricordi, fissando la potente familiarità dell’attesa in pose cristallizzate.
Non ci sono exploit scenici, le risoluzioni dello spazio si risolvono in un arredamento di due lettini e una poltrona fatti di cartone compresso, mentre per terra altri brandelli ne rivelano la caduca essenza, come foglie autunnali. Due interruzioni luce buio, per passaggi drammaturgici. Il resto è testo.
A separare il pubblico dalla scena un telo di grana trasparente, che ci permette di vedere questo mondo, seguendo Trifirò come Orfeo. Forse è questa una possibile lettura di quello cui assistiamo, un concretizzarsi di un universo onirico che assume le fattezze del reale. Il finale infatti si chiude in un’immobile e immobilizzante cristallizzazione della scena, quasi fossero davvero pictures from an exhibition, illuminati da una luce irreale, come quella delle scene caravaggesche, o hopperiane. Le une fermate nell’istante preciso di qualcosa che accade, le altre fermate nell’istante preciso in cui qualcosa non accade.
Trifirò sceglie dolcemente, caparbiamente, di raccontarci da sempre il secondo universo, le sue ombre. E’ questo ha un crudelissimo fascino.
L’allestimento è riuscito, anche se le due interpreti femminili pagano dazio ad una modalità estetica sicuramente più familiare al regista, che se ne fa interprete da anni. E questo un po’ si vede. Faticano infatti a trovare quel sottilissimo tratto di cinico umorismo cui solo Trifirò riesce a dar corpo, a volte anche solo con un inarcare delle sopracciglia o una curva delle labbra. Ma d’altronde, nel fanatismo per questa estrema forma di supplizio cui abbiamo fin dall’inizio dichiarato di abbandonarci con naufragante sicumera, i codici di questa estetica ci sono familiari e, quando ricorre in qualche interprete, ne annotiamo la mancanza con un po’ di disappunto. Ma capiteci, è quasi roba di famiglia.