ANDY VIOLET | Le caratteristiche di quello che talora con spregio viene chiamato gusto popolare sono note da secoli, e rappresentano, nell’ambito dell’estetica, una struttura culturale ed antropologica di lungo corso. Pur nelle diversità delle varie epoche, l’approccio popolare al riso e al pianto, al bello e al brutto presenta alcuni elementi di continuità ricollegabili alla natura materiale della sua ispirazione, scandita dalle grandi, ineludibili tappe dell’esistenza (nascita, morte, gioventù, vecchiaia, ecc.) in cui i personaggi di queste letterature semispontanee si muovono secondo un meccanicismo archetipale che ne fa modelli di immediata fruizione, semplice e comprensibile sommario della realtà.

Non deve stupire, pertanto, la ripetitività quasi ossessiva di tali modelli culturali, canovacci esistenziali che, mutando nomi, restano incarnazioni tipizzate e tipizzanti della varietà umana e delle loro azioni: pensiamo alle lampanti somiglianze strutturali delle favole che tutti conosciamo, o all’invarianza narrativa delle situazioni comiche del teatro popolare. Delle 21 commedie conosciute del commediografo latino Plauto, per esempio, almeno 17 presentano con minime variazioni lo stesso schema narrativo e gli stessi personaggi-simbolo, comuni tipologie umane rese ancora più efficaci dall’uso di maschere fisse, che ne annullano l’individualità in favore di una più marcata iconicità senza tempo: il vecchio rimbecillito (vittima di sberleffi senza che nemmeno se ne accorga), lo spiritoso servetto magnogreco (che deve movimentare la trama coi suoi lazzi e le sue trovate di dubbio gusto), l’artista vanaglorioso (che si atteggia a saggio conoscitore del mondo ed elargisce perle di filosofia spicciola in lunghi e sconclusionati sermoni), la bella cortigiana, desiderata da tutti (che si scopre poi essere rampolla perduta di un’importante famiglia grazie ad un elemento di riconoscimento come un disegno sulla pelle).

Anche le scenette cui essi danno vita obbediscono alla stessa fissità: qualche innocua battuta ad effetto sul potente di turno, qualche messinscena omoerotica sul modello delle “nozze maschie”, la contaminatio di situazioni e personaggi incoerenti presi qua e là da vecchi repertori e fatti convivere forzosamente su un unico palco.

Ne è un tipico esempio anche una delle commedie tarde del grande scrittore latino, la Sanremia, recentemente andata in onda in cinque serate su Rai Uno: in essa, come tutti abbiamo potuto ammirare, tali elementi si fondono nel mirabile e ridicolo pastiche della pochezza umana, della rappresentazione icastica e feroce del compiacimento della mediocrità.