urlELENA SCOLARI | Nella costellazione dei piccoli teatri milanesi segnaliamo una crescita interessante nella programmazione del Teatro Oscar: abbiamo già parlato de La bestia nella giungla dall’omonimo romanzo di Henry James, oggi ci soffermiamo invece su La regina degli elfi, dal testo del premio Nobel Elfriede Jelinek, recentemente messo in scena a cura di Angela Malfitano, che con questo lavoro vuole rendere omaggio il suo maestro Leo de Berardinis.

I due lavori di cui abbiamo fatto menzione hanno in comune l’essere ispirati a due testi difficili e complessi, Henry James per la profondità di pensiero sul mistero dei rapporti tra uomo e donna, espressa però con una sottigliezza cristallina; La regina degli Elfi è invece una riflessione sul teatro e sulla Storia, altrettanto profonda ma a nostro parere, meno intelligibile allo spettatore.
L’autrice Elfriede Jelinek è austriaca, ottiene il premio Nobel per la letteratura nel 2004, vive tra Austria e Germania e in questo lavoro si concentra sulla realtà del periodo nazista.
La protagonista è Paula Wessely, attrice di teatro viennese realmente esistita e che si è lasciata irretire dal regime hitleriano. Lo spettacolo comincia con la proiezione (troppo lunga) di un collage di scene di film con la Wessely e di spezzoni di video delle parate naziste, con particolare attenzione alle tanto promosse attività sportive, strumento di forte propaganda per la sana vita nazista.
L’attrice (interpretata da Angela Malfitano) è morta e viene portata in scena (cioè in platea) a spalla, da sei giovani, seduta nella sua bara e truccata di tutto punto. Il suo è un monologo, recitato interamente da questa posizione di decesso sospeso. Ascoltiamo un’orazione funebre che l’attrice dedica a se stessa, restia a lasciare il suo pubblico e la fama raggiunta, la donna rende la bara il suo ultimo palcoscenico. Ci parla, proprio in qualità di spettatori, del Potere, in un parallelo ardito e inquietante tra il potere del capo sulle masse (ovvero del fuhrer sul popolo) e dell’attore sul pubblico.
Fino a circa metà spettacolo ci piace seguire il fluire di un ragionamento che punta a spiegarci come lo spettatore sia continuamente ingannato (bella la sintesi della battuta: “Questo teatro non è così piccolo, vi abbiamo convinto che il palco lo fosse per far sentire voi più grandi), a un certo punto però il discorso si fa faticoso, si avvoltola troppo su se stesso e si perde il filo del paragone tra carisma dell’attore e carisma del dittatore (non diciamo dittATTORE, per carità).
Angela Malfitano è brava, indubbiamente il difetto di fluidità non sta nella sua recitazione, raffinata, convincente e misurata, forse ci sono invece alcune scelte di regia che confondono un po’ e non aiutano lo spettatore nella lettura del significato: i sei giovani, parte del corteo funebre, anch’essi truccati come la protagonista, rimangono in scena per tutta la durata, immobili, a reggere la cassa, salvo una salita sul palcoscenico (anche questa troppo lunga) durante la quale si cambiano a vista indossando abiti tirolesi e poi cantano una canzoncina in tedesco mentre mimano esercizi di ginnastica. Tornano poi al loro posto, accompagnando le ultime parole del monologo con alcuni gesti di cui confessiamo candidamente di non aver capito il senso scenico: spillare birra, cucire…
L’attrice esce, per sempre, di scena, accettando la fine e permettendo la fine dello spettacolo, lo spettacolo della sua vita e della sua morte.
Il testo ha, a nostro avviso, una scrittura che lo avvicina ad un saggio, letterariamente parlando, pertanto richiederebbe che lo spettatore fosse più accompagnato per comprenderlo appieno. La tesi dell’attore ingannatore ai danni del pubblico connivente, perché in fondo il pubblico vuole subire l’incantesimo del teatro, potrebbe essere più sfumata, per lasciarci una maggior quota di libero incanto.

Qui alcune sequenze di un video sullo spettacolo
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