la_vita_cronica_dell_odin_teatret_a_roma_al_teatro_vascelloBRUNA MONACO | Dietro il fondo scena del teatro Vascello si apre uno spazio inatteso, ampio abbastanza da ospitare La vita cronica, ultima creazione di Eugenio Barba, e un paio di centinaia di persone ben raccolte sugli spalti portatili che seguono l’Odin Teatret nel loro tour mondiale. Così, che lo spettacolo si svolga in un teatro all’italiana o nella sala di una palestra, al pubblico sarà garantita una modalità di fruizione antica da teatro greco: gli spettatori a guardare lo spettacolo dall’alto in basso. A guardare la scena e se stessi: la distanza fra una rampa e l’altra è di pochi metri, possibile leggere negli sguardi e nelle espressioni degli spettatori dirimpetto le reazioni agli eventi scenici. Stessa struttura Nello scheletro della balena del 1997 in cui gli spettatori-commensali erano invitati a sedere non su spalti, ma intorno a tavoli imbanditi che a loro volta fiancheggiavano la scena: da una tavolata all’altra potevano guardarsi guardare, bere, mangiare. E anche in Mythos (1998) in cui la vicinanza del pubblico e la sua sistemazione ai due lati dello spettacolo era essenziale perché si vedesse la scenografia al suolo, in continua ridefinizione. Nel caso de La vita cronica non c’è forse una necessità drammaturgica che motivi la scelta, ma ormai anche l’organizzazione scenica è per l’Odin un segno distintivo.
Fin dagli esordi l’Odin Teatret ha creato uno stile ben riconoscibile e ha fatto scuola. Nel corso dei decenni poi, (quasi cinque ormai) lo ha messo a punto fin quasi a cristallizzarlo. Ne La vita cronica gli elementi tipici “odiniani” ci sono tutti: una linea drammaturgica non troppo leggibile, una trama musicale composita e strutturata, gusto barocco nei costumi, attenzione formale. La coerenza del percorso è dovuta in buona parte alla continuità del gruppo, stabile molto più di una famiglia: Roberta Carreri, Jan Farslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley sono i primissimi membri dell’Odin Teatret. Kai Bredholt è da più di vent’anni parte della compagnia, da quasi dieci Donald Kitt e anche le giovanissime Elena Floris e Sofia Monsalve, per la prima volta in scena con l’Odin, vantano un’annosa conoscenza e frequentazione del gruppo. Non sono mancate le collaborazioni esterne e internazionali nel corso dei decenni, quelli che Eugenio Barba chiama i “baratti culturali”: con numerose compagnie latinoamericane, asiatiche, italiane. Nonostante questo la forza centripeta dell’Odin è sorprendente.
Sempre impegnato sul piano politico, l’Odin Teatret dedica La vita cronica a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, le scrittrici russe assassinate per aver contestato il conflitto ceceno, e lo ambienta in un contesto lugubre da post guerra civile, in un futuro molto prossimo, il 2031. A condividere questo luogo inospitale e la scena una Madonna nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista delle isole Faroe, un ragazzo colombiano, una violinista italiana e due mercenari. Almeno così informa il foglio di sala. Durante lo spettacolo, in realtà, i personaggi rimangono inafferrabili, come pure l’ambientazione e le vicende. La densità dei rimandi e delle riflessioni sconfina nell’incomprensibile.
Eppure intorno alla drammaturgia gravitano tanti nomi. Di Ursula Andkjær Olsen e dell’Odin Teatret tutto sono i testi. Ci sono poi un drammaturg (Thomas Bredsdorff) e un consulente letterario (Nando Taviani). Le drammaturgia, infine, insieme alla regia, la firma Eugenio Barba. Il rapporto tra evento scenico e scrittura, (tra libro e teatro, direbbe forse Taviani) è come sempre in Barba di stretta dipendenza. Tutto il suo percorso artistico ha proceduto lungo questi due binari: da una parte ci sono libri come La canoa di carta in cui si specchia l’esperienza di teatro antropologico. Dall’altra ci sono i libri dei suoi esegeti da Nando Taviani a Nicola Savarese. Un’impalcatura teorica a sostegno di una pratica teatrale. Così La vita cronica spettacolo è accompagnata da La vita cronica in forma di libro: raccolta di racconti in cui gli attori descrivo ognuno dal suo personale punto di vista il processo dello spettacolo e la genesi dei personaggi. Paradossalmente, se sul palco vediamo solo delle presenze, personaggi dai contorni sfocati e dalle vicende faticosamente intuibili, nei racconti prendono corpo. Meglio che nella scena si confondono con gli attori e ci comunicano la loro storia. Se Eugenio Barba rifugge un teatro “chiaro” non vuole però negarsi alla narrazione. Ed ecco, in appendice, a complemento del teatro, un libro, a cui si concede ciò che si è negato alla scena.
Ne La vita cronica l’evocazione vince sul racconto eppure il varco attraverso cui dovrebbero passare le emozioni è troppo stretto. Il dramma fatica a manifestarsi.
Gli attori, pur molto preparati, hanno un che di nostalgico. O forse è lo spettatore che conosce la storia dell’Odin, quella di una compagnia che ha fatto della qualità del movimento il suo punto di forza, a provare nostalgia per quel gruppo di attori che sembrava aver sconfitto ogni resistenza fisica, ogni opacità del corpo all’unità pensiero-azione. L’energia e la baldanza si sono perse per strada, come è normale quando sfiorisce l’età dell’oro dei corpi. Ma nessun cambio di rotta è venuto a correggere le vessazioni del tempo. E se si può considerare la resistenza un valore sul piano storico, La vita cronica, lo spettacolo, in quanto prodotto fruibile nel qui e ora, ne risente.
Per questo, probabilmente, Barba riempie a piene mani la scena di musiche e costumi. Le musiche, belle, eseguite da voci altrettanto belle, sono troppo presenti: come sempre, rigorosamente dal vivo, commistione di rock, pop e canti tradizionali. Pochissimi i silenzi. Bruschi i passaggi da un genere all’altro, per suscitare una reazione meccanica, priva di profondità. E anche i costumi, nel loro tripudio di colori e svolazzi non fanno altro che accentuare per contrasto l’assenza di dinamismo della scena. E La vita cronica risulta uno spettacolo in disequilibrio.

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