blondi fracassi 1RENZO FRANCABANDERA | La prima perversione deve essere stata non cedere alle perversioni. E questo sia per Sgorbani, che firma la drammaturgia, sia per il duo Martinelli-Fracassi che in questo progetto di racconti di amore e dittatura si sono tuffati da alcuni mesi.
In realtà l’idea di Blondi era in gestazione da circa tre anni e trova realizzazione nel 2013 grazie alla scommessa del Piccolo Teatro. Questa perversione è riuscita. Di quello che è stato forse il punto di partenza, l’amore nella sottomissione animale, nell’esito spettacolare non resta che qualche pallida traccia tanto nel testo quanto nell’azione scenica. Il fulcro è altrove.

La seconda è per così dire ambientale. La perversione è tipicamente un atto immaginabile in un luogo chiuso. Qui invece siamo di fronte ad uno spazio importante, ad una perversione esibita. Il Teatro Studio nella nuova conformazione senza platea frontale e senza palco rialzato ha una parte appena entrati dove si sistema l’emiciclo degli spettatori, e tutto il resto dello spazio agibile che si prolunga fino alla parete di fondo per circa trenta metri. Lo spazio dell’emiciclo è vuoto, quello sul fondo, all’ingresso, riempito con una ventina di brande che diventeranno poi elemento scenico determinante. Sensazione di chiesa gotica sconsacrata, dove fra le brande in metallo da nosocomio si aggira questa cagna dal sembiante identico a quello del padrone. Felice l’intuizione scenica di Renzo Martinelli cui va dato merito per l’idea.

E qui siamo alla terza perversione: il letto. La cama. Il giaciglio. Qui inquietante. Malato. Ospedaliero. Ma camuffato attraverso strisce di plastica attaccate alla spalliera, e pronto a diventare prato finto, spazio aperto per le scorribande del cane dittatoriale. Con due schiavetti in divisa pronti a registrarne ogni minimo guaito.

Quarta perversione: dittatore e schiavo. Master and slave. Attenzione, declinare l’ovvio dell’idea è la parte pericolosa di ogni spettacolo. Qui andava costruita un’identità psicologica per l’animale diversa da quella, già portata all’attenzione del pubblico, di Eva Braun, protagonista di un altro capitolo del polittico “Innamorate dello spavento”. La drammaturgia si gioca principalmente sul conflitto fra la cagna e la donna, dove l’una finisce per diventare l’altra in un rovesciamento di parti che ha connotati umani, fra gelosie, psicodrammi e risate a denti in fuori del padrone. La cagna posseduta; la Braun che, per il piacere del capo, gli urina addosso, di fatto sottomettendolo, e che fa da contrappunto al sacrificio dell’animale; piacere mortifero ultimo del padrone nell’avvelenare la bestia, come Pasolini in Salò: la masturbazione di fronte al mondo che muore per propria mano. Queste immagini scorrono in rapida sequenza nel racconto.

Quinto: non uccidere! Fantastica, nella parabola psicologica dell’animale, dopo aver posseduto (perchè animale del capo) ed essere stata posseduta, è l’esperienza della maternità. Questa parte è, per corposità di conflitto con la distruzione circostante, un momento figurativo altissimo. In questo punto la Fracassi arriva al massimo della densità interpretativa. Dona a questo sogno di batuffoli lanuginosi una corporeità, un’ intensità, che ovviamente porta lo spettatore allo schianto con di lì a seguire scena di morte. Non la gravidanza, ma la cura della vita: questi in quaranta secondi che valgono lo spettacolo. Mentre fuori, nel gelido freddo, una locomotiva percorre binari ricoperti da una neve di plastica e cadono le trincee (in questo Martinelli, onestamente,  dimostra di aver vinto la sfida in generale).

Sesta perversione: ascesa e declino dello città di Mahagonny. Assistiamo al percorso sui due rami della parabola. Sul tema risulta fondamentale il lavoro sulle luci di Claudio De Pace e di Fabio Cinicola al suono. Sono loro a segnare il punto di flesso, il momento in cui la curva si inverte. Il passaggio da un mondo e un sistema di emozioni, l’ascesa, all’altro, il declino. Per la cronaca questo ruolo è fondamentale perchè proprio prima di quel flesso, la drammaturgia cede, si fa insistita e ripetitiva (e la regia un po’ asseconda). E un momento in cui non arriva tutta a segno e i giochi ambientali salvano il ritmo. Annotiamo, per le luci, la parte più scontata dell’epifania dei bombardamenti. Didascalica.

Settima: raccontiamo cosa abbiamo visto. Mettiamo fine alla perversione dell’attesa. La vicenda è quella del cane di Hitler, Blondi. Zelighianamente innamorata del padrone. In scena appare con due militari (Lorenzo Demaria e Daniele Molino) deputati in pratica a soddisfarne i bisogni e a registrarne voci e sussulti. In un continuo conflitto amoroso con Eva Braun, la cagna vive ascesa e declino della dittatura, fino a morire di cianuro nel freddo baratro della fine, dopo essere stata costretta a procreare sotto gli occhi della rivale.

blondi fracassi 2Ottavo peccato: la parola. La drammaturgia è vincente in più punti, e nei punti di debolezza è sorretta dalla solita grande Federica Fracassi, che colora di umanità il bestiale, la cui unica vera incorporazione non è nella camminata a quattro zampe ma nell’impossibilità del pollice opponibile, con le mani fasciate a contenere il dito degli uomini. Il testo a volte si dilunga, sgorbaneggia, che per chi conosce l’autore siamo sicuri sia un verbo con una sua coloritura specifica. Per chi non lo conosce, invece, Blondi è comunque un’opportunità di confronto con un ossessivo creativo della parola psicologica, che resta al di qua de limitare con il poetico, riteniamo per volontà. A volte se ne vorrebbe ancora, a volte non più.

Nona perversione: la fantasia. La scena più bella quella in cui un treno sfreccia in sala, e quella in cui si vede una svastica rotante girare in fondo alla sala illuminata da dietro durante una farsesca esibizione di forza di un regime allo sbando, o quella in cui una cagna allatta cuccioli che guaiscono, o ulula al freddo siderale della notte tedesca, e le trincee di una guerra che fa prigioniera sempre l’umanità inconsapevole. Ma forse questo in sala non c’era o ce lo ha fatto vedere Martinelli. Blondi è una delle sue migliori regie degli ultimi anni: meglio le partite secche fuori casa da 90 minuti che quelle da 180′ (andata – ritorno e supplementari) fra le mura amiche.

Decimo peccato: il sassolino. Insomma diciamocelo: Teatro i è andato a vincere al Piccolo-Maracanà… giocando all’italiana, tenaci, ma in più tratti dando anche spettacolo vero. E zac!

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