tdvetroLAURA NOVELLI | “Io non ho paura”: ricorda il titolo di un celebre romanzo di Niccolò Ammaniti il filo conduttore tematico che lega insieme le diverse proposte messe in campo da Teatri di Vetro 2013 e che Roberta Nicolai, direttrice artistica della vetrina romana, ha scelto per raccontare uno spaccato di nuova creatività italiana, figlia giocoforza della crisi attuale ma anche capace di aprire prospettive di riflessione sul mondo di domani.
Il ricco programma di questa settima edizione, al via domenica 21 e con eventi fino a martedì 30 dislocati in diversi spazi della capitale (teatro Palladium, Centrale Preneste, Forte Fanfulla, Fonderie Digitali e lotti del quartiere Garbatella), non risparmia nessun ambito della creazione contemporanea e anzi, a fronte di risorse economiche pressoché dimezzate, rafforza il suo legame con l’oggi aprendosi a nuove forme espressive: installazioni site-specific, arti visive, audio-documentari, video-arte (comprensiva di video-danza e video-teatro), performance, percorsi musicali sospesi tra digitale e analogico si insinuano tra scritture coreografiche e operazioni specificatamente teatrali che – e qui sta forse la scommessa più stimolante della vetrina – entrano in dialogo con le costole più nuove e sperimentali del cartellone per chiedere allo spettatore, tutte insieme e tutte con pari autorevolezza, di porsi delle domande, di ascoltare le sue necessità, di interrogarsi sui suoi bisogni culturali.
“Ogni anno – spiega Roberta Nicolai – mi propongo di indagare il contemporaneo inteso come un luogo in cui coesistono molteplici modi di pensare e rielaborare la realtà. Quando io e gli altri curatori della vetrina selezioniamo i progetti da inserire nel cartellone, ciò che cerchiamo di ritrovarvi non riguarda solo la praticità del fare artistico ma anche, e direi soprattutto, il senso teorico di un’indagine, di un percorso di pensiero e di conoscenza. Personalmente, entro in contatto molto stretto con gli artisti che sostengo, li curo da vicino, cerco di conoscerli bene. Poi ovviamente devo scegliere, selezionare e lo faccio prediligendo sempre quelle operazioni che, a prescindere dal fatto che siano già approdate ad una forma finita o viceversa ancora in fase embrionale, hanno provocato uno spostamento, anche lieve, del mio pensiero. Penso infatti che, tanto più in questi tempi di angoscia e di crisi, chi crea debba pretendere dal pubblico l’attitudine ad un’indagine, la voglia di fare un’esperienza, di interrogarsi sulle necessità proprie e dell’artista stesso. Non mi interessa cioè l’arte come semplice oggetto commerciale, cibo da consumare e digerire”.
Consiste dunque in questa vigile attenzione verso il reale ma anche verso il pensiero che progetta e immagina il futuro (“quando Strehler fondò il Piccolo di Milano, non ebbe forse una visione? E non sono stati forse visionari tutti i padri fondatori del teatro del Novecento?”) la battaglia contro la paura, personale e collettiva, che il teatro e l’arte in genere possono intraprendere in momenti duri e difficili come quello attuale. “Abbiamo scelto Io non ho paura perché è uno slogan espresso in prima persona, ci chiama singolarmente alla responsabilità della scelta. Se non ci mettiamo in testa, noi artisti, operatori, critici, intellettuali di cambiare, di ascoltare le trasformazioni in atto nel mondo reale, di riformulare le nostre possibilità e i nostri ruoli, rischiamo di diventare sempre più marginali”.
Ciò significa ovviamente riformulare anche i codici estetici, le definizioni di genere, i confini di “parentela” tra arte e arte. “Non credo che oggi noi possiamo chiamare teatro solo ciò che è sempre stato teatro. Credo anzi che nella contemporaneità anche un video o una performance possano entrare di diritto nella definizione, o possano almeno confondere le acque al punto di stimolare una riflessione a riguardo. Dipende, appunto, da cosa quell’opera cerca di dirmi come spettatore, quale necessità esprime o intercetta”.
Mettiamoci dunque in ascolto di “opere” come, ad esempio, gli sconfinamenti nel tessuto urbano previsti dal contenitore Overlab Project e dalla tappa finale della maratona studentesca tra le “paure” dei cittadini, Across Lightblack il titolo, ideata da Dynamis teatro. Cerchiamo di interpretare la necessità di un artista come Filippo Berta, cui la rassegna dedica una personale, o di una cronista come Ornella Bellucci, curatrice di tre reportage giornalistici pensati per un ascolto live.
E lasciamoci ovviamente sollecitare dalla ricca programmazione drammaturgica, assemblata anch’essa secondo un’ottica di fluida contaminazione tra linguaggi e forme: Andrea Cosentino approfondisce lo studio “Not here, not now” già avviato in seno al laboratorio Perdutamente del Teatro di Roma; “La società” si intitola invece il lavoro della compagnia Musella/Mazzarelli che, sorretto da una scrittura solida e concreta e da una recitazione quasi cinematografica, arriva a Roma prodotto dallo Stabile delle Marche; Carrozzeria Orfeo figura in cartellone con “Robe dell’altro mondo”, produzione già molto apprezzata da pubblico e critica che affronta le paure metropolitane in chiave fumettistica e grottesca, mentre la giovane formazione Leviedeifool rilegge in modo assolutamente originale il capolavoro di Collodi e, in “Requiem for Pinocchio”, confeziona uno spettacolo sovraesposto che viaggia su piani diversi. Pari interesse suscitano poi “Grattati e vinci” di Quotidiana.com, “Col tempo” di Clinica Mammut, “Religions – 1.studio” di Farmacia Zooe’ e la lettura scenica, a cura della compagnia Biancofango, di “Las Vegas” di Tobia Rossi, testo vincitore del bando Urgenze.
Questo è tuttavia solo un timido assaggio di quanto programmato. Vi consigliamo perciò di consultare l’accurato catalogo on-line sul sito (ma anche www.teatridivetro.it e www.romaeuropa.net/palladium) e di seguire più eventi possibile. Portando sempre con voi alcune domande centrali: cosa mi sta dicendo questo artista? Cosa mi sta chiedendo? Come e quanto sta spostando il mio pensiero? Che tipo di esperienza sto facendo?