LACLASSEALESSANDRO VOLTA E ASSUNTA PETROSILLO | Degli spettacoli visti quest’anno al Napoli Teatro Festival, «La classe» − diretto da Nanni Garella e interpretato dalla compagnia Arte e Salute − è largamente il più bello; ispirato all’opera di Tadeusz Kantor «La classe morta», ne mantiene intatto lo spirito. In questo lavoro, infatti, i personaggi mettono in scena le ossessioni delle persone che sono state o che avrebbero voluto essere da vivi, e dalle quali non riescono a liberarsi: la donna che desiderava un figlio e non ha potuto averlo, quella che ha sbirciato tutta una vita dalla finestra sputando sentenze sulle vite altrui, quella che ha sopportato la nomea di donna facile, lo scienziato che si è lasciato raggirare, l’uomo di grande cultura.
Donne e uomini che non hanno avuto pace in vita ma, non essendo riusciti a risolvere i conflitti dell’esistenza, anche da morti ripropongono, in una sorta di coazione a ripetere, i gesti che li hanno identificati in vita. Tutto questo viene coagulato nello spazio di una classe, che dà impulso a un’ulteriore ossessione, più innocente e collettiva: un esame, un’interrogazione, il primo giorno affidati ad un insegnante che è assente, o a una bidella spaventosa che evoca la morte che incombe.
Gli scarni elementi di scena (vecchi banchi, uno spazzolone per pavimenti, sussidiari polverosi) e una luce tenue ma fredda amplificano il senso d’inquietudine per questa ansimante oscillazione fra passato e presente, sottolineato dalla presenza di fantocci che affiancano i protagonisti come presenze che emergono direttamente dall’infanzia, la sola età felice della vita. Una stagione in cui ancora tutte le strade erano possibili e percorribili, fino all’arrivo inaspettato di una rottura – un evento, una malattia, una necessità – che imprime un cambio di rotta all’esistenza; una drammatica cesura che introduce uno spartiacque tra un prima e un dopo non recuperabile.
Nel gioco delle parti che il teatro del Novecento continuamente ripropone, occorre domandarsi se anche gli spettatori non facciano parte della stessa classe, uniti ai protagonisti della scena in un doppio legame fatto di vita e morte, di malattia e sanità della psiche, di ripetizione ossessiva e libertà d’azione. In fondo in quel piccolo spazio del ridotto del Teatro Mercadante personaggi e spettatori erano egualmente di fronte, ognuno per quel che si è disposto a partecipare, all’assenza di significato delle proprie esistenze.
Ognuno per quel che ha inteso partecipare e comprendere: perché tra i presenti c’era anche chi ha preferito conversare per tutto lo spettacolo, chi era occupato a registrare col telefonino la bella colonna sonora, chi intento a frugare rumorosamente in una busta di carta. Quanta intollerabile maleducazione si sperimenta anche a teatro.
Allora lo spettacolo assume anche la valenza di ricordare che il “noi” e il “loro” non sono confini definitivi che fissano una differenza, ma le facce di una stessa medaglia, uno specchio spietato in cui riflettersi ed interrogarsi su come sia possibile dare senso alla vita per poter riposare in pace almeno da morti. (A. Volta)

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La classe GarellaSiamo seduti al cospetto di una classe di scolari-zombie, dal viso incipriato di cerone, dallo sguardo fisso, muti dietro i loro banchi impolverati di legno: cinque uomini e cinque donne, vestiti di nero con pantaloni troppo corti, giacche abbondanti e gonne troppo strette. Gli uomini si nascondono sotto piccole bombette, le donne sotto parrucconi grigi. Sulla sinistra dietro uno strano sedile di legno, di spalle al pubblico, immobile, en travesti una strana figura.

Gli scolari ci guardano, con gesti scattanti si alzano dai banchi per poi risedersi. Qualcuno alza un braccio, altri si contorcono e si toccano la pancia quasi come a voler chiedere il permesso per andare in bagno.
Si ritrovano tutti in piedi, escono. Al rientro quasi come in una presentazione da circo, portano con sé pupazzi di pezza, rappresentazione feticcia di un mondo ormai lontano, ma incantato, rarefatto. Si rifugiano nell’infanzia, quella perduta, cristallizzata. Con scatti fulminei ballano un valzer con i loro alter ego di pezza, ci fanno a pugni, come a voler esorcizzare un malessere subdolo, strisciante. Ci troviamo di fronte ad una specie di marionette umane intrappolate in un labirinto onirico, senza vie di uscita.

Il remake de La classe morta di Kantor è un felice esito cui Nanni Garella porta gli attori della compagnia Arte e Salute dell’Asl di Bologna, attori-pazienti che danno vita ai mostri della mente, alla loro stessa dolorosa esperienza, al loro sentirsi ‘esclusi’ in un mondo che ama catalogare e ghettizzare la società: Nicola Berti, Giorgia Bolognini, Luca Formica, Pamela Giannasi, Maria Rosa Iattoni, Iloe Mazzetti, Fabio Molinari, Mirco Nanni, Lucio Polazzi, Deborah Quintavalle, Moreno Rimondi, Roberto Risi, non devono fingere, sono se stessi, ma coscienti.
E come in un film muto riannodano le loro trame camminando all’indietro, col viso rivolto al presente, ricominciando dalla fine e per poi ritornare alla loro unica dimensione ancorata tra l’altrove e l’oblio.  Due di loro si prendono per mano e come Chaplin e la sua compagna riavvolgono la pellicola del loro film, come in una sorta di rewind, ma dalla fine.
Quella strana figura – relegata in un angolo −  si staglierà su di loro con un’enorme scopa/falce e li farà cadere uno dopo l’altro, senza alcuna pietà. Era lì con loro, nella stessa classe, ma non l’avevano riconosciuta, si mascherava sotto sembianze femminili, in un corpo mascolino, nerboruto.
Si ricompongono e si siedono tra i banchi insieme ai loro fantocci, si interrogano tra loro sulla storia di re David, Salomone e come in una cantilena ripetono parole, numeri, versi, suoni. Si ergono a professori, drizzandosi in piedi su quel sedile di legno che di volta in volta diviene scranno, latrina, sedia. Parlano, si agitano per poi crollare su se stessi e su quei banchi lividi. L’annuncio dell’assassinio dell’arciduca d’Austria a Sarajevo li desta dal sonno. Un giovane uomo con un lungo cappotto e un fucile fuori misura entra in classe e prendendo la mira spara su tutti. Una donna seduta sul banco in prima fila, a ritmo incalzante, mima nascite senza figli, con culle dondolanti, ma vuote. Si sentono ninne-nanne ululate, versi strazianti.
Qualcuno scappa, qualcuno scruta da una finestra portatile ciò che accade, altri si nascondono e alla fine restano solo i fantocci di pezza mentre quel giovane straniero sventola un’enorme bandiera nera su quei banchi ormai occupati da fantasmi di pezza.
L’urlo straziante che pare arrivare al pubblico è “Voi potete, io non posso!”, il grido disperato di chi è immobilizzato in una ‘forma’ plasmata da altri. È questo il grido di chi sa di non poter cambiare il percorso della propria esistenza e rimane imbrigliato in una ragnatela invisibile di soffocante sofferenza che porta con sè anche oltre la morte, e che gli attori restituiscono con una forza straordinaria. Rimane attualissima e non può non coinvolgere anche il pubblico la riflessione sul limitare dell’esistenza come confine labile e proiezione al di qua e al di là di questo ideale segno di ansie e impossibilità che già l’al di qua rende tangibili ed esperibili. E la domanda se si sia liberi in vita, se davvero si possa, o si riesca a potere rimane dilemma esistenziale che Kantor ancora a trent’anni di distanza propone. (A. Petrosillo)

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