ipVINCENZO SARDELLI | Ondeggiante abbrivio di musica d’archi, I.P. (Identità precaria), anteprima della compagnia Ilinx che abbiamo visto nella panoramica cornice di Campsirago nell’ambito della rassegna Giardino delle Esperidi, è uno spettacolo che oscilla tra assurdo e teatro di figure (regia di Nicolas Ceruti, drammaturgia di Amanda Spernicelli, in scena Mariarosa Criniti, Giulia Lombezzi e Luca Marchiori).
In maniera evocativa, per flash irrelati, I.P. tratteggia il fenomeno sempre più diffuso (dilagante in Giappone) degli hikikomori: ragazzi che si chiudono nelle loro stanze, smettono di andare a scuola e di avere vita sociale. Legati al mondo reale solo attraverso il computer e internet, questi ragazzi si isolano persino dalle loro famiglie, confondono il giorno con la notte, non mangiano, non si lavano. Si chiudono in un angosciante silenzio. A volte deperiscono, fino a morire.
Lo spettacolo. Una gabbia separa gli spettatori da una scena grigia, laconica, sullo sfondo della quale campeggia un cumulo di giornali. Nel vuoto imperante stridono gli abiti fucsia e viola delle attrici: un tocco di colore sgargiante e al tempo stesso tetro, che non riscatta entità senza identità.
Tutto è sospeso, provvisorio. I personaggi corrono a vuoto. Il “dove e quando” non diventa “qui e adesso”. La “conoscenza”, richiamata dall’uso dei giornali, non è finestra sul mondo e sulla vita, ma muro che divide. L’artificiale purgatorio telematico dentro cui hikikomori di tutte le solfe si tuffano per la loro inettitudine a comunicare con esseri in carne e ossa, diventa vortice. L’io vi annega. Si disperde.
Un’ironia sottile e disperata tenta di animare questa pièce, dalla recitazione senza pretese, che condanna l’autistica società in ripiegamento su se stessa.
L’intimità svapora nelle figure senza nerbo che riempiono la scena. Tutti anelano a fuggire, forse alla ricerca del vero sé. Alcune scelte drammaturgiche e registiche sono spiazzanti. Alla piatta staticità (psicologica?) si alternino momenti di corsa frenetica. Qual è lo scopo? Rivelare che siamo un cumulo di contraddizioni? Animali in gabbia? Non è chiaro al pubblico, forse neppure a chi ha realizzato lo spettacolo.
Note techno, full-jazz e rock riproducono un’atmosfera straniante che interferisce con le parole. Le parole stesse volano via come i fogli di giornale spinti dal vento che, progressivamente, deposti dagli attori sulle grate della gabbia, rendono impenetrabile allo sguardo e al respiro il muro che li racchiude.
Tecnica naif, questo spettacolo utilizza qualche espediente scenico e registico già visto per evocare la dissociazione di una società che non trova soluzioni e precipita. Rimane il vuoto desolante, che ricade sullo spettatore. Senza appello. Quell’appello che deve meritarsi la compagnia di Inzago (Mi) per definire meglio drammaturgia, regia, stile e intenti comunicativi. Altrimenti i primi ad essere spiazzati sono proprio gli attori.
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