bruni_decapitaniLAURA NOVELLI | Parola scritta e parola recitata, pronunciata, porta al pubblico/uditorio. L’impressione più vivida che resta dopo il reading con cui Elio De Capitani e Ferdinando Bruni hanno aperto la rassegna romana “Il Garofano Verde. Scenari di teatro omosessuale” è quella di una ricerca verbale e testuale che recuperi alla scena la sacralità del dire e la raffinatezza di un raccontare con intelligenza, originalità, arguzia, consapevolezza, bellezza. Non si tratta solo, cioè, di scegliere autori “sicuri” in tal senso – il cartellone di questa ventesima edizione, per esempio, assembla, insieme con questo Alan Bennett iniziale, due intellettuali italiani molto diversi tra loro come Giovanni Testori (sulle cui poesie religiose raccolte in “Nel tuo sangue” e “Ossa mea” si concentra l’intervento di Valter Malosti) e Walter Siti (di cui Massimo Popolizio affronta uno dei racconti de “La magnifica merce”) – ma si tratta anche di convogliare traduttori, registi, artisti, attori capaci di dare un “come” decoroso alla “cosa” detta. Per cui, è vero, nel caso di “Il vizio dell’arte” di Bennett (titolo originale, “The Habit of Art”) parliamo di reading, di lettura, ma in realtà dentro quella mise en espace c’è già un’aura di spettacolo, un senso interpretativo forte, un’armonia di segni e significati, un’idea compositiva chiara.

La storia narrata qui dal pregevole scrittore inglese (di cui proprio Teatridithalia ha prodotto di recente l’incisivo “The History Boys”, vincitore di sei Tony Award) è assai semplice: il poeta Wystan Hugh Auden (affidato all’ironia baldanzosa di Bruni) e il compositore Benjamin Britten (un De Capitani compassato e sottilmente elusivo) si rivedono dopo decenni dal loro ultimo incontro e parlano di arte, musica, poesia,malattie, desiderio, etica, vita. Poi si salutano, Britten se ne va. Non prima, però, di aver vezzosamente conversato con una giovane marchetta (Alejandro Bruni Ocaña) rimorchiata da Auden e affascinata – appunto – dall’abilità con cui quest’ultimo maneggia e valorizza la parole, anche quelle meno auliche come “cazzo”.

Che si tratti, dunque, di un omaggio alla sapienza fabulatoria e alla forza di una facondia (persino lirica) che non scende a compromessi  con la volgarità e l’approssimazione, ce lo dice anche un altro fatto: il testo di Bennett (autore ottantenne amatissimo in patria e noto, qui da noi, soprattutto per opere come “La pazzia di Re Giorgio” e “La cerimonia del massaggio”) è in realtà organizzato come fosse la prova di una messinscena incentrata sull’incontro tra i due amici artisti (si erano conosciuti durante la lavorazione del documentario “La posta di notte”, di cui Auden aveva elaborato i testi e Britten la colonna sonora), con tanto di continue domande poste dagli attori all’autore.

Un gioco pirandelliano, dunque, denso di ricadute metateatrali e metaletterarie di cui gli stessi De Capitani e Bruni ci mettono al corrente prima della loro prova, laddove introducono testo e autore con divertito trasporto. Quando le luci calano si entra nel ventre delle parole. Ci sono solo gli attori in piedi sul palcoscenico, e tre leggii. Tanto basta per far capire che leggere un’opera sintonizzandosi sui toni giusti e disegnando personaggi credibili è come allenarsi bene – e allenare il pubblico – allo spettacolo futuro. Probabilmente – e ce lo auspichiamo –  nel 2015 il progetto arriverà a buon fine: chi ha assistito a questo iniziale approccio al testo avrà il privilegio di commisurare la ragionata lievità di un reading parziale, ma già di altissimo livello espressivo, con una messinscena integrale dell’opera.

In mezzo ci sono ovviamente gli ostacoli economici e produttivi. Questa, però, è un’altra faccenda. E qui le parole, per quanto incisive, hanno purtroppo un assai misero potere.