fabreLAURA NOVELLI – CARLA RUSSO | Quest’anno il Romaeuropa Festival ha dedicato una ricca retrospettiva all’artista belga Jan Fabre. Scopo dell’iniziativa: verificare l’attualità di quelle ossessioni – il corpo, il tempo, l’eros, la morte, la religione – e di quella visionarietà che hanno rappresentato i perni centrali del suo lavoro. Intervistato di recente a Napoli in occasione della presentazione dell’edizione italiana del suo volume Giornale Notturno (1978-1984), curato dal prof. Franco Paris, l’artista esplicita i cardini della sua poetica e della sua ricerca artistica. Le sue opere inscenano sempre il conflitto, come nel modello della tragedia greca, presente attraverso l’alternarsi di dualismi: attore/danzatore, angelo/diavolo, uomo/donna. Conflitto che necessita di un “corpo disciplinato” per giungere alla performance, come avveniva per Fred Astaire. “Mi chiedevo se i suoi movimenti fossero naturali, invece studiava molto”, ammette Fabre, “l’agilità di Fred Astaire viene repressa dalla disciplina, ma è proprio in quel momento che scaturisce una forza, una resistenza”. Corpo politico, carnale, erotico, palpabile, è forte il richiamo alla tradizione fiamminga, basti pensare a Rubens, Van Dick, Van Eyck, Bosch e Rembrandt. Come spesso accade nell’arte contemporanea,anche per Jan Fabre il corpo si rivela come involucro vuoto che ha cercato di riempire, ad esempio, con le figure-spaventapasseri di Universal Copyrights (1995)Image, ma anche di segnarlo ispirandosi alla figura del Cristo (corpo stigmatizzato) e alla corazza degli animali (tartarughe, insetti,…) affinché il corpo non potesse essere più ferito. E’ da qui che parte l’idea di un nuovo performer, il performer del XXI secolo, consapevole, danzatore e attore insieme, capace di passare dall’act all’acting. Oggi l’attore non è più “spinto da necessità” come lo erano gli attori negli anni ’80 – dichiara ancora Fabre – ha minore passione a fronte, tuttavia, di una maggiore consapevolezza, di un maggiore controllo. Nella sua ricerca, Fabre è attualmente affiancato da un team di scienziati dell’Università di Anversa, dal sociobiologo ed entomologo americano Edward O. Wilson e dallo scienziato italiano Giacomo Rizzolati, che compiono studi sull’empatia attore-pubblico e sui neuroni specchio, nel tentativo di capire cosa accada ad un performer sottoposto a determinati stimoli. Dopo grandi maestri come Grotowski, Brook, Barba, Fabre si è prefissato di compiere il suo personale studio sull’attore supportato da un metodo scientifico. Barbara de Coninck, sua collaboratrice, spiega come la poetica di Jan Fabre sia permeata del medesimo terrore di fronte al mistero della morte e alla legge della continuità della vita presente nei testi ottocenteschi di un altro Fabre, suo bisnonno che di nome faceva Jean-Casimire, studioso d’insetti. Jan Fabre risponde a questo terrore attraverso il corpo, problema e soluzione alle sue domande, sublimato attraverso la metamorfosi. Tutta l’arte di Fabre è un’operazione di esorcismo, per lui la morte non è spettacolare, bensì un avvenimento la cui accettazione permette l’esaltazione della vita.
Non vanno lette perciò come due costole indipendenti le performances presentate all’Eliseo nelle settimane scorse (“The power of theatrical madness” e “This is theatre like it was to be expected and foreseen”) e la mostra “Stigmata. Actions and performances 1976-2013”, in programma al MAXXI fino a metà febbraio. Esse sono, bensì, aspetti imprescindibili di una creatività mai paga di provare nuove strade, nuove provocazioni, nuovi incubi. Ottocento le opere dislocate nel primo piano del moderno museo romano: un materiale sfrenato che mette insieme disegni, foto, installazioni, video, statue, corazze, oggetti, arnesi e citazioni autobiografiche capaci di raccontare un animo in conflitto con la vita, con il reale e con l’atto creativo stesso. Principale bersaglio: il corpo. Un corpo martoriato, trasfigurato, svuotato dei suoi umori, esposto a torture e prove di resistenza (basti citare la performance in cui Fabre si dimena per cinque ore dentro una corazza di ferro). Un corpo-sangue in cerca di atti estremi di “per-for-azione”, ma in cerca soprattutto di un senso e di una bellezza impossibili senza lotta, pericolo, uscita da sé. “Voglio scrutarmi con una lente d’ingrandimento – scrive l’artista – dentro e fuori dal corpo. E dare nuovo senso all’arte della performance. Sopportare!”.
Ed è proprio questa ossessione “scientifica” a rappresentare uno degli aspetti più moderni del percorso artistico di Fabre. Tra i numerosi pezzi in mostra ci ha colpito un video in cui egli dialoga con Edward O.Wilson (studioso di insetti e vincitore di un Premio Pulitzer per la divulgazione scientifica) ponendosi e ponendoci una domanda emblematica: la visionarietà di uno scienziato funziona esattamente come quella di un artista?
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=g7ucz9CYATU&w=210&h=160] Nel primo quadro gli interpreti siedono con le spalle al pubblico (dunque, sono il pubblico?): l’atmosfera è compassata, cupa, indefinita. Poi, a poco a poco, sul palcoscenico scorre l’intero mondo fabriano: l’eros scaduto a voyeurismo, la parola afasica, il corpo guerriero, la fatica di spogliarsi e rivestirsi per ore, l’immagine degli attori immortala da riprese in Superotto, oggetti e corpi appesi a dei ganci di macelleria, il refrain di battute assurte a leitmotiv poliglotta, l’ossessione per la morte. Lo scenario complessivo è inquietante. E insieme distante.
Durante lo otto ore, cediamo, usciamo, rientriamo. C’è chi sgranocchia qualcosa, chi gioca a Ruzzle, chi manda sms dal cellulare. La visione dunque non obbliga alla concentrazione, all’empatia. Al contrario, distanzia. Capiamo che c’è un mondo alla rovina. C’è una vita che si allunga nella morte. C’è un niente che ci attanaglia e ci toglie il futuro. E però qualcosa non regge. Qualcosa appunto ci allontana. Certamente, il titolo suona profetico se solo pensiamo a quanto teatro successivo all’82 sia stato (è o vorrebbe essere) postdrammatico, associativo, antimimetico. Ma rimane il fatto che preferiamo il Fabre del “Prometheus Landscape II”. Preferiamo la compattezza di una regia che si arrovella su un tema specifico. Anche quel lavoro era trasbordante di sovversioni: il destino eroico eschileo veniva capovolto in una desolata anarchia di certezze. Ma si usciva dalla sala “pensosi”. Memori di quel martellante monito/quesito al quale chissà quanti di noi possono rispondere con placida immediatezza: “Who is our hero?”.

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