Il-ritorno-a-casa-Foto-Pino-Le-Pera-300x336RENZO FRANCABANDERA | Il confronto è sempre il più utile degli strumenti che l’intelligenza ha a disposizione per strutturarsi. E quindi felice l’opportunità che offre in questi giorni il Piccolo Teatro di milano che, dopo aver ospitato nella scorsa stagione Le retour diretto da Luc Bondy, interpretato da un cast importante di attori del teatro e del cinema francese, propone quest’anno in cartellone il testo del 1964 di Harold Pinter Il ritorno a casa, nella versione diretta da Peter Stein, al Teatro Grassi fino all’1 dicembre.

Il ritorno a casa è un testo della maturità, corrosivo quanto aperto, aperto in una modernità che lascia spesso anche il gusto del piacere incompiuto perchè inquieta, crea spazio all’inconscio. La drammaturgia è assai particolare e per certi punti di vista controversa, perché scarta su un doppio focus drammaturgico, il secondo dei quali arriva inaspettato e abbastanza politicamente scorretto a indagare il ruolo ambiguo della donna.

La trama è quella della classica riunione di famiglia che si trasforma in un’occasione per tirar fuori veleni, irrisolti, derive psicotiche e sentimentali, esasperate da una presenza femminile ambigua che nel secondo atto farà letteralmente saltare il banco. Un padre, suo fratello, e tre figli (Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, tutti bravissimi), uno dei quali professore negli States che per combinazione arriva nella casa dove convivono gli altri quattro con la moglie (Arianna Scommegna). Costei, apostrofata come una puttana dagli altri, si rivelerà dotata di un’indole quantomeno plurale, disposta ad accettare di restare con i quattro mettendo in campo persino la possibilità di prostituirsi, abbandonando marito e figli oltreoceano, per una vita in cui, però, da sfruttata finirà per diventare sfruttatrice. Il perché di questa scelta e dei veloci passaggi psicologici e decisionali della donna restano la vera incognita della drammaturgia, che, infatti, gioca proprio sui non detti e gli irrisolti, come se una serie di questioni appartenesse più all’emergere dell’inconscio che al reale.

Cosa c’è in scena e in cosa il lavoro di Stein risulta interessante in assoluto e in comparazione con la proposta di Bondy?

In scena c’è un interno inglese classico, proletario, di quelli da film di Loach, periferia, umanità avariata, fra piccolo brigantaggio di periferia, simpatiche canaglie cresciute e diventati disadattati pressochè cronici, con la coazione all’abitazione per evidente stato di indigenza e di fallimento del progetto di vita.
Il lavoro di Stein è ormai da anni focalizzato su testo e attore, sulla modalità dialogica fra questi elementi, fino quasi a consentire marginali adattamenti del primo ai secondi, come conferma Schilton in un’intervista agli attori disponibile sulla web tv del Piccolo Teatro.

Da questo punto di vista, la lettura che Stein dà sia del testo e del lavoro degli attori è come al solito di altissimo profilo. Anzi, forse in questo allestimento, complice anche un numero di attori più ridotto rispetto al kolossal I Demoni, il gruppo sembra più compatto e la direzione del recitato, volta a creare caratteri differenti ed esasperati ma che trovano tutti ragionevole spazio dentro le maglie di un testo equivoco, appare davvero la scelta più ricca ed azzeccata del lavoro.

Con particolare riferimento poi alla figura chiave della protagonista femminile, l’interpretazione della sempre notevole Arianna Scommegna, finalmente in una grande produzione, mette fortemente in luce una serie di sfaccettature che Bondy aveva del tutto taciuto, preferendo l’immagine della donna bella, sciocca ma pronta poi ad approfittare.

In un finale da tableau vivent da incisione di Kempff di fine Ottocento, la donna-sfinge, domatrice più che doma, con gli uomini cagnolini ai suoi piedi, vale davvero lo spettacolo e propone un enigma nell’enigma che invece l’allestimento di Bondy non sfruttava, limitandosi a giocare su dinamiche sceniche e recitative in apparenza più eterodosse, ma nella sostanza più piatte. Il palco era quello dello Strehler, una casa garage, un’autorimessa della vita, con la scenografia votata all’eye catching, che lasciava intravedere vie di fuga e spazi ulteriori.
Stein sceglie un profilo sicuramente più tradizionale e meno centrifugo, creando un interno asfissiante e senza vie di fuga. Il mondo è in un interno senz’anima, senza dialogo col mondo, così che l’alternarsi di giorno e notte lo intuiamo solo da quello che fanno gli abitanti della casa. Sopraffazioni, abusi di posizione e di ruolo: potrebbero persino leggersi, i diversi caratteri, come parti di un’unica psiche in lotta fra loro. Abitanti schizofrenici di una sola personalità le cui diverse anime giocano a mettersi sotto scacco e a giocare/far sul serio nel provocarsi piccoli dolori. Come quando si torna a casa. E fra frecciatine e cattiverie si allude alle fortune di questo o quello, alla miseria del parente sfortunato, a quegli sguardi stanchi di famiglie logore, come quando si resta soli con se stessi, a fare i conti con la parte che in noi ha vinto e soggiogato le altre. E difficile, se non impossibile, è capire se ce n’è una davvero migliore.

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