Elena Bucci-Duse-foto Nomadea 10LAURA NOVELLI | Un assolo concertato. O meglio: un concerto per corpo e voce che riscrive la biografia di Eleonora Duse sulla fisicità e la vocalità di un’attrice profondamente intensa quale è Elena Bucci. Affidato alle sue corde espressive questo “Non sentire il male” – lavoro de “Le Belle Bandiere” ideato oltre dieci anni fa e mai abbandonato da allora, tanto da divenire un compagno di viaggio in continua trasformazione – suggerisce l’idea di un affondo dentro di sé attraverso la passione, l’ardore, l’idealismo, la forza, la modernità della più grande attrice italiana di tutti i tempi. Il terreno su cui si gioca l’incontro tra le due artiste, l’attrice di ieri e quella di oggi, non può ovviamente che essere il teatro. Tanto che esso non solo costituisce qui la materia del monologo ma ne rappresenta la sostanza formale stessa, la sua “stoffa”, in una armonica tessitura tra il filo “di cui si parla” e il filo “attraverso cui si parla”.

E a parlare per prima è la voce della Bucci/Duse: pura voce che nel buio vuoto del palcoscenico precede l’entrata in scena dell’attrice, quasi a voler definire sin da subito lo spazio “altro” dove si muove l’arte, e dove l’arte autentica sublima – appunto – la fisicità dei suoi stessi artefici. Ma questo corpo sottratto, timido, cauto che occupa senza fretta il recinto ombroso della recitazione, in uno splendido gioco di luci disegnato dal compianto Maurizio Viani (e reso possibile dal bravo Max Mugnai), ricorda innanzitutto – o semplicemente – lo stile della Duse. Uno stile nervoso, tremante, sottoesposto, spezzato, che tanta novità portò sulla scena italiana di fine ‘800, monopolizzata dal carisma istrionico del grande attore e, ancor più, da quello statuario della “grande attrice”.

Scrivendo per e su se stessa la drammaturgia della piéce, la Bucci (che ha rielaborato lettere autografe, documenti d’archivio, recensioni senza rinunciare però ad una propria libera visione) ci tira dunque immediatamente dentro la genialità controversa, e spesso incompresa, della sua eroina. Ne anticipa la cifra stilistica con la sua assenza/presenza iniziale. Ne veste i panni con assoluta compenetrazione, scivolando in un lungo cappotto scuro che poi lascerà scoprire un fasciante abito da sera. Ne racconta stralci di vita partendo da quel letto di morte in cui la Duse, assistita dalla fedele amica Matilde Serao, salutò le sue illusioni più grandi. Ne ripercorre sentimenti, frustrazioni ed emozioni offrendoci al contempo il punto di vista dell’attrice e quello di alcuni degli uomini che ella amò e per i quali soffrì (Martino Cafiero, Arrigo Boito, Gabriele D’Annunzio), come in un rispecchiamento imprescindibile tra realtà e finzione. Come se, in definitiva, Eleonora senza scena non potesse consistere (impossibile non ricordare lo splendido libro di Mirella Schino “Il teatro di Eleonora Duse”).

Dunque, l’attrice di ieri e quella di ieri sembrano, sono, diventano la stessa cosa: un’anima alla ricerca di un grumo di verità nel paradossale ossequio alla non-verità della scena. E non è caso che questa sommessa evocazione monologante (vista al teatro Argot di Roma) esca volentieri dal suo tracciato prevedibile per mostrarci proprio l’artificio della creazione teatrale: quel metodo recitativo, scientifico e al contempo istintivo, che dette alle “donne” della Duse l’esistenza vibrante delle frasi ripetute, del corpo ricurvo, delle gambe accavallate, delle mani passate sul volto o tra i capelli. Un metodo senza metodo. Un flusso di ispirazione di cui pochi intuirono la modernità e che si traduce, attraverso lo “stile” della Bucci (a gennaio in tournée con “Antigone, ovvero una strategia del rito”, www.lebellebandiere.it) , in una gestualità e in una vocalità studiate nei minimi dettagli, modulate su registri bassi e sempre variati, spinte su pose e toni volutamente poco naturali ma di sicuro effetto espressivo. Forse in alcuni passaggi si avverte un’enfasi che rischia di appesantire la fruizione del lavoro. Motivo per cui, secondo noi, la bravura dell’interprete, capace di una rara plasticità, risulta ancora più ammirabile in quei momenti di briosa ironia in cui il pathos del monologo inciampa in una prospettiva sbieca e più leggera. Probabilmente la Duse era anche questa leggerezza, questa voglia di abitare il mondo e il palcoscenico distaccandosene per rincorrere un altrove da cui ridere – o sorridere – della vita.