pantanoVINCENZO SARDELLI | Un soggetto bislacco e surreale questo Pantano di Domenico Pugliares, produzione Teatro della Cooperativa, regia Renato Sarti, che ha inaugurato il 2014 al Piccolo Teatro Grassi di Milano (scene e costumi Carlo Sala, musiche Carlo Boccadoro, luci Claudio De Pace). Protagonista una donna di mezz’età, Maria/Maddalena (Cecilia Vecchio), accusata d’accidia per essere rimasta inerte di fronte alle vicissitudini che hanno portato al suicidio della figlia. A processarla e a contendersene l’anima, un povero diavolo (Daniele Timpano) e un dio poveraccio (Gianfranco Berardi).

Luogo della disputa un aldilà che è un parchetto giochi per bimbi. Con tanto di altalena, giostra e asse d’equilibrio, didascaliche allegorie di una giustizia da diporto, capricciosa e barcamenante come la dea bendata.

Un dio smargiasso, né arrogante né ipocrita, tende a chiudere un occhio sulle debolezze della peccatrice. Ironizza sulla propria perfezione e sulle imperfezioni altrui. Il diavolo invece, furbo e malizioso, azzarda argomenti sofisticati per guadagnare l’anima della defunta e prevalere su dio.

Questo il gioco di ruoli dichiarato. Perché, nella realtà, i due re dell’oltretomba sembrano pappa e ciccia. Machiavellicamente leonini e volpini, rievocano il Gatto e la Volpe di collodiana memoria quando, nei panni di due straniti Teletubbies, mettono in scena una buffa pantomima tra buona e cattiva coscienza. La prima si mostra sognatrice e idealista; la seconda cinica, cruda e sarcastica. Il costume giallo identifica la buona coscienza, colore dell’estroversione ma anche della razionalità vitale; il rosso la cattiva coscienza, loquace, passionale, in qualche modo aggressiva.

Chiaro il teorema della pièce. La giustizia è arbitrio irragionevole. Non tiene conto delle sfumature. Oscillante come la vita, conduce in alto, per poi lasciar cadere alla cieca. Non segue ratio né costrutto. Confonde in un magma indistinto il bene e il male,

Una regia tutta giocata sul grottesco quella di Renato Sarti. Che cerca invano di dare spessore a un testo inconsistente, ripetitivo, dalla dialettica mediocre, con qualche luogo comune di troppo che i toni lievi non bastano a legittimare. Estemporanee citazioni dantesche non nobilitano il copione.

La protagonista, che dovrebbe giustificare la propria inerzia, ora muta, apatica, stralunata, ora istericamente logorroica, è in realtà una povera donna reduce da un’esperienza in manicomio, mezzo narcotizzata. È messa peggio della figlia che, almeno nella scelta del suicidio, si è mostrata libera e assertiva. I due re la giudicano ricorrendo ad argomenti avvitati e circoli viziosi. È da capire il senso di processare una persona mentalmente inferma, dal passato complicato, nella sostanza incapace d’intendere e di volere.

I dialoghi non sono dosati. Monologhi verbosi e ridondanti s’alternano a silenzi ebeti e derisori.

Il registro comico non lascia il minimo spazio a momenti d’elegia e di pathos. Che pure c’azzeccherebbero, dato l’argomento trattato.

Non resta che affidarsi all’abilità degli attori: recitativa di Timpano, con l’estrosa alternanza di falsetto e toni petulanti, con l’aggiunta di qualche tic nervoso; scenica di Cecilia Vecchio, di corpo e di mimica; fisicamente istrionica, con qualche acrobazia di troppo volta a impressionare il pubblico, di Gianfranco Berardi.

Un’occasione persa? Forse. Ci si aspettava di più da un autore come Pugliares, che finora le aveva indovinate un po’ tutte, supportato alla regia e alla drammaturgia dal navigato stratega Renato Sarti, nell’occasione non abbastanza ispirato.

Berardi, Vecchio e Timpano avrebbero dovuto aggiungere il tocco da dream team. E invece troppe stelle non fanno squadra. Talora si stordiscono a vicenda. Magari per la sicumera che neppure spinge a provare e a limare il necessario. O forse perché, tra talenti, si finisce troppo per fidarsi delle sensazioni altrui. Si tende a delegare. Col rischio di rimediare, a volte, figure un poco magre.

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