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VINCENZO SARDELLI | Che bella prova d’attore quella di Eugenio Allegri. Che con Novecento di Alessandro Baricco, regia di Gabriele Vacis, ha aperto la XVI rassegna Incontri al teatro Verdi di Corsico. E andrebbe ricordato che Novecento nasce nel 1994 proprio come pièce teatrale, scritta per Allegri. Solo alcuni mesi dopo la prima fortunata tournée, Baricco decise di farne un romanzo. Poi venne il film, La leggenda del pianista sull’oceano.

Un testo rappresentato su tutto il pianeta. Nei giorni scorsi era di scena a New York. La vicenda è quella di Novecento, un uomo nato all’inizio del secolo scorso su un transatlantico, e ritrovato da un marinaio sopra un pianoforte. Cresciuto tra le due guerre mondiali, Novecento trascorre l’intera vita a bordo del Virginian: non trova mai il coraggio di scendere. Impara a suonare il pianoforte, diventa una leggenda. Vive di musica e dei racconti dei passeggeri.

Bello rivedere Novecento nell’allucinata e grottesca versione originale. Con un Allegri proteiforme. Alla faccia della raucedine di stagione (ipse dixit, mica se n’era accorto nessuno) e degli anni che passano.

La patina del tempo c’è: quella dei vini pregiati. Una scenografia e le luci (di Lucio Diana e Roberto Tarasco) con un velo diafano che divide a metà nella lunghezza il palcoscenico, a creare una quinta parete: spazio reale verso il pubblico, “metafisico” sullo sfondo. Luci intimistiche. Un pianoforte mini pende dall’alto: ogni tanto oscilla, come una barca nel mare. I costumi (di Elena Gaudio) evocano i personaggi principali: lo stupito narratore e lo stesso Novecento.

500 repliche, 200 mila spettatori: un monologo cult della scena italiana. Gesti onirici, evocazioni fascinose. Recitazione buffa e intensa, falsetto e gorgheggi. Voce roca, frizzi e lazzi. Sillabe scandite, centellinate. Pause surreali. Passi di danza. Eugenio Allegri emoziona, riesce ancora a sospendere in un’attesa immaginifica. Con il pubblico inchiodato alla poltrona per due ore. Fino agli applausi, liberatorî.

Come Paolo Nani con La lettera. Come Antonio Rezza con Pitecus. Eugenio Allegri, anche lei fa lo stesso spettacolo da vent’anni. Non assomiglia un po’ a Novecento, che non ebbe mai il coraggio di abbandonare quella benedetta nave e scendere a terra?

Gli assomiglio. Non perché non abbia il coraggio di scendere, ma perché abbiamo la stessa visione del mondo. Come Novecento e altri personaggi di Baricco, so di dover affrontare il mondo pur non avendo tutte le “carte in regola”. Però non mi sottraggo alla sfida. Se Novecento al mondo infinito preferisce il microcosmo della nave, io la scaletta per scendere l’ho intrapresa più volte, con altri spettacoli. Lui una volta sola: pochi gradini, ed è tornato indietro.

Anche lei è tornato indietro. Più di una volta.

Sì, per ritrovare lo stesso punto di vista. E scoprire quant’ero cambiato.

E allora?

So confrontarmi di più con la realtà. Come attore riesco a misurarmi di più con il mio tempo. Provo a interpretarlo il meglio possibile.

La nave metafora del palcoscenico?

Sì. È un luogo protetto. Permette di avere le cose sotto controllo. Riesco dal palco a raccontare le mie storie davanti al pubblico. E quando parlo degli altri, racconto me stesso.

Novecento sul transatlantico coglie l’anima del mondo. Lei che cosa vede dal palco?

Vedo che le cose potrebbero andar meglio. Non mi piace che a molta gente venga sottratto il tempo per pensare, per vivere consapevolmente, per costruire la propria gioia. Questo mondo sta cancellando la dimensione dell’uomo. Viviamo nella velocità, siamo schiavi della tecnica. L’economia ci soffoca. Abbiamo smarrito il rapporto armonico con la natura. Il mio tempo ha ereditato le speranze della prima metà del XX secolo, fatte di progressi artistici e conquiste lavorative. Poi le ha smarrite, a causa dei totalitarismi, delle guerre, del capitalismo. È venuta meno la poesia.

Baricco delinea una costruzione umanistica dell’uomo. Lei riesce a recuperarla attraverso il teatro?

Ci provo, partendo da me stesso. Mi metto in discussione. Cerco di fare in modo che ogni spettacolo sia diverso dall’altro. Trovo il coraggio di abbandonare i percorsi sbagliati. Non è il risultato che conta, ma il percorso.

Paracelso diceva che «non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina».

Per me il cammino è quello dell’attore che interagisce con il testo. Credo nel linguaggio e nell’identità dell’attore. Provengo dalla commedia dell’arte. Il testo e la regia si fanno attimo per attimo. Non solo durante le prove. Ma anche durante la rappresentazione, interagendo con il pubblico. Il passato cambia a seconda del futuro che affronti.

L’attore come strumento multiplo?

L’attore non è solo parola. Anche se la parola stessa è importante, e si trasforma continuamente sulle sue labbra. Non è solo sequenza logico-grammaticale. È evocazione, suono, forza espressiva, capacità di rivelare persone, emozioni, fantasie, luoghi.

Lei ha interpretato Novecento contemporaneamente ad Arnoldo Foà e Corrado d’Elia. Differenze?

Con Foà, che ricordo con affetto, abbiamo recitato addirittura insieme due volte, nel 2007 e nel 2010. Il mio timore reverenziale verso di lui durò appena due minuti. Ci apprezzavamo. Lui si congratulò con me, venne ad abbracciarmi. D’Elia l’ho visto in altri lavori, è molto bravo.

Novecento per produrre le sue magie jazz aveva bisogno di sentire l’oceano sotto il sedere. Lei di che cosa ha bisogno?

Della magia dello scambio con un pubblico attento ed educato come quello di Corsico. Della trasparenza delle sue sensazioni ed emozioni. Ho bisogno di stare nel mondo con tranquillità. Ho bisogno dei miei tempi per affondare i miei pensieri: affetti, musica, letture. Ascolto molto. E parlo il meno possibile.

 

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