COus COus con CamusRENZO FRANCABANDERA | Forse perché giocavo pure io in porta, vabbè, a calcetto, che così almeno se alzavo le braccia la traversa riuscivo a toccarla. Forse perché Camus ha detto delle verità profondissime sull’animo umano che non possono non lasciar innamorare, di quell’amore struggente e doloroso per le sue parole.

Forse perché è un tempo così passato ma così presente, di incertezze e memorie di orrori ed errori, quello che si respira nella sala dai drappi rossi, così innaturalmente teatrale.

O forse semplicemente perché nel brodo del cous cous ci vuole il peperoncino. Secondo me. E anche secondo loro.

Insomma sarà per tutte queste cose o per le semplici scelte che le Ariette pongono in essere per raccontare una storia di vita, di anni Settanta, di baschi in testa e discussioni fra anarchici e comunisti nella campagna francese, storie di primi amori, mescolate alle parole di Camus, sarà per tutto questo, ma TEATRO NATURALE? Io, il couscous e Albert Camus di Paola Berselli e Stefano Pasquini, (per la regia di quest’ultimo e recitato, oltre che dai due sodali della tenuta delle Ariette, che festeggiano in questi giorni i 25 anni insieme (auguri grandissimi!), anche da Maurizio Ferraresi) è un’operazione, secondo me, riuscita.

In primis perché forse più e meglio che in altri loro lavori, sempre centrati sull’autobiografismo e sull’atmosfera conviviale, si rinuncia per gran parte a questi due elementi per cercare un corpo a corpo con il letterario che, pur con qualche “gancio emotivo” rimane sempre in un territorio di grande onestà rispetto allo spettatore, che kantorianamente vede chi alza il volume della musica, vede l’attrice immergersi davvero nella tinozza d’acqua, e vede i protagonisti, nella loro maturità e nei segni degli anni, ritornare con i propri corpi ad un tempo e ad un mondo di idee che non sono più.
Ma proprio perché non sono più, quelle parole diventano letterarie e sono di nuovo, nuovamente politiche, la tinozza sembra un mare sconfinato, e la Berselli che ci nuota dentro per poi andarsi a sdraiare su un asciugamano di frasi sottolineate dello scrittore franco algerino, con il suo corpo magro stretto in un vestitino rosso bagnato, diventa icona imperfetta, immagine di poesia fragile ed essenziale, come il pensiero di Camus e quel conflitto tra uomo naturale e uomo sociale che la società borghese ha vissuto e quella digitale sta misconoscendo, in nome di un uomo antisociale e neodigitale, chiuso nel suo doppio, nel suo avatar personaggio da cui sempre più fatica ad uscire.

Il cibo dopo lo spettacolo è un pretesto per restare da Olinda al Paolo Pini di Milano, dove abbiamo visto lo spettacolo e dove sta per ripartire “Da vicino nessuno è normale”, a chiacchierare con gli artisti, e in quest’ottica è un gesto di lotta al paradigma antisociale e dunque anche questo, politico.
L’interogativo che questo spettacolo del 2012 pone è se anche il teatro, come Mersault, il protagonista de “Lo straniero”, che rifiuta di mentire e obbedisce soltanto alle leggi della natura, possa vivere in francescana semplicità, sfuggendo agli obblighi delle convenzioni sociali, sincero fino alle estreme conseguenze. Ecco quindi il contrasto di quel drappo rosso, innaturale e così rituale, con un recitato che prova, in alcuni casi con successo, ad andare oltre la narrazione per approcciare fondamentalmente il postdrammatico.
La natura, per chi la vive davvero, non è idillio. E’ spesso anche crudeltà, verità, sofferenza del debole. E in questo spettacolo questa verità forse viene per paradosso maggiormente fuori rispetto ad altri lavori delle Ariette, pur non essendo mai qui la natura protagonista, ma solo sfondo, ambiente, sciabordare di onde in lontananza. Viene maggiormente fuori perché  gli artisti abbandonano il lato più romantico del loro codice di scrittura, per concentrarsi su alcuni quesiti scenici che, pur con qualche altalena di intensità durante la recita, ingaggiano lo spettatore e lo portano pienamente in un tempo e in un luogo letterario, immaginario ma profondamente reale. In cui a comandare è il libro, le sue pagine stampate in formato gigante. Fardello sulle spalle dell’uomo contemporaneo, piegato sotto il peso dei suoi inconfessabili perché.