DIARIO DEL TEMPO. foto di alessandro carpentieri.03LAURA NOVELLI | L’ultimo – atteso – lavoro di Lucia Calamaro si intitola Diario del tempo: l’epopea quotidiana; arriva dopo la felice intuizione del “polittico” messo a segno ne L’origine del mondo: ritratto di un interno, premiato con ben tre Ubu; dura circa tre ore e preannuncia successivi sviluppi che in un certo qual modo andranno a comporre un’opera-fiume simile alla precedente. Simile in cosa? Anche in questa sua nuova produzione, la cui prima parte in due atti ha debuttato al teatro India di Roma nei giorni scorsi, l’autrice e regista romana, impegnata in scena insieme con una straordinaria Federica Santoro e con Roberto Rustioni, fotografa un’umanità disperatamente alle prese con nevrosi e fragilità contemporanee.

Stavolta però l’intento è quello di puntare l’obiettivo sulla dimensione del tempo: un tempo dilatato, vuoto, perso, speso a colmare l’apnea del non-sapere-cosa-fare. Un tempo tiranno proprio perché privo di azione e di senso. Un tempo da combattere, da annullare perché abbondante, da disinnescare in quanto minaccia quotidiana all’equilibrio personale. L’avere-tempo-libero sembra essere infatti la condanna principale della protagonista, Federica (la Santoro), una disoccupata che si mantiene affittando le camere dell’appartamento in cui vive e che cerca di riempire la sua esistenza a furia di corse e terapeutiche sedute di giardinaggio urbano. Tuta gialla, giubbottino arancione, scarpe da ginnastica e piantina in mano, questa quarantenne deprivata della riconoscibilità sociale ascrivibile ad un lavoro fisso (o perlomeno ad un lavoro qualsiasi), trema e vibra come un animale impaurito sulla cresta di un dirupo. I suoi oggetti – un materasso gonfiabile, un tapis roulante acquistato on-line, una finestra che non c’è ma che immaginiamo esserci – circoscrivono lo spazio limitato del suo agire (e, tanto meglio, del suo non-saper-poter-agire) e assorbono le ambivalenze di una personalità depressa, che barcolla continuamente tra l’intenzione di fare-correre-sudare e la tentazione di stendersi immobile a pensare la sua stessa stasi.

L’interprete è bravissima nel dare credibilità, spessore, mutevolezza al personaggio e il suo dire/raccontare (il dire proprio di un diario che è già di per sé un organizzatore di tempo) innesca sin da subito un gioco grazie al quale il linguaggio stesso – e dunque la scrittura – sfida la tirannia psicologica di questo tempo vuoto provocando, drammaturgicamente, un tempo lento, dilatato, ripetuto, persino esausto. Qualcuno del pubblico, all’uscita o nell’intervallo, diceva di aver avvertito una certa noia. Ma la noia è proprio l’esito voluto di questa provocazione estetica (prima che ideologica) che l’autrice architetta per far percepire allo spettatore quella stessa agonia del quotidiano, divenuta un’epopea che dalla necessità fatale del mito classico si sposta alla fluidità spaesante di un flusso di coscienza quasi joyciano, patita dai personaggi. Oltre a Federica soffrono, infatti, dello stesso malessere anche Roberto (Rustioni), un impiegato pubblico costretto al part-time con il quale Federica ha imbastito un rapporto di fraterna amicizia e un’insegnante di ginnastica incontrata alla stazione (siamo nel secondo atto della pièce, laddove lo spazio scenico si apre ad una profondità vuota e allusiva di chissà quanti altrove) che, interpretata dalla Calamaro, cerca di ingannare l’angoscia per il tempo-che-passa esperendo rilassanti training autogeni in posizione yoga e studiando filosofia (guarda caso proprio Jacques Lacan) all’università.

Certamente non c’è e non può esserci evoluzione in queste tre icone dell’oggi, perché la loro non è una rivoluzione sociale, non è una denuncia storica (per quanto l’attanagliante crisi dei nostri tempi funzioni qui da fertile terreno ispiratore), non è un j’accuse alla politica e alle istituzioni. Federica, Roberto e Lucia semplicemente urlano sottovoce la loro incapacità di consistere. Anche le loro parole somigliano più a pensieri che ad affermazioni. Anche i loro gesti, spinti all’eccesso della corsa, del tango e dello yoga, raccontano più una ricerca interiore che una stabile consapevolezza. Bisogna ascoltarli, accompagnarli, capirli, sopportarne le ripetizioni, le lentezze, le ansie, le nevrosi per non rischiare di annoiarsi. Bisogna percepire il tempo come lo percepiscono loro (e mi viene in mente un capolavoro di Bob Wilson, Deafman Glance, in cui il grande regista americano sperimentava sul pubblico proprio una particolare dimensione del tempo e dello spazio) per assaporare l’estrema teatralità e la spigolosa verità di una testo davvero ben scritto, che conferma la Calamaro una delle voci migliori della nostra drammaturgia e regala alla Santoro l’opportunità di una prova superba.

1 COMMENT

  1. Bellissima recensione
    Ha recepito secondo me perfettamente il senso di questa scrittura
    Un momento di umanità un bellissimo spettacolo

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