unnamedLAURA NOVELLI | C’era una volta un affiatato gruppo di ragazzi romani divenuti attori prima per gioco poi per passione. C’era una volta un palcoscenico arioso, su cui affinare i propri talenti e sperimentare i propri limiti, condividendoli con quelli degli altri in modo da dimenticarsene e azzerarli. C’era una volta la fantasia scatenata di uno scrittore strabico, curioso, inarrestabile, capace di stuzzicare l’immaginazione e l’intelligenza di grandi e piccini. E c’era un team di artisti-tecnici-specialisti impegnati con tutte le loro energie a far sì che quel miracolo dell’andare in scena – e del farlo con un senso che va ben oltre i confini dell’esibizione – avvenga sempre e sempre meglio. Molto probabilmente se Gianni Rodari fosse ancora vivo, trascriverebbe in forma di favola l’avventura umana ed artistica che da anni matura dentro il Laboratorio Integrato Piero Gabrielli, pregevole esperienza di incontro tra scuola e teatro promossa dal Teatro di Roma, dal Comune e dal Miur, di cui ho qui più volte scritto.

Uno sguardo attento merita, in particolare, la sua costola più longeva, più stabile: quella Piccola Compagnia formata da giovani con e senza disabilità che, dopo aver frequentato il Laboratorio durante le scuole medie, hanno trasformato il teatro in una professione vera e propria. I dodici bravissimi attori e cantanti che ne fanno parte – e mi sento in dovere di citarli tutti: Jonas Asegay, Jessica Bertagni, Fabrizio Lesi, Edoardo Lombardo, Chiara Mercuri, Gabriele Ortenzi, Fabio Piperno, Simone Salucci, Emanuele Sgroi, Giulia Tetta, Sara Tosato e Danilo Turnaturi – hanno debuttato nei giorni scorsi in un nuovo, spumeggiante lavoro. Lavoro dedicato ancora una volta al grande autore di Omegna e attraversato da un gustoso, divertente, scanzonato senso della romanità, che non solo ce la dice lunga sulla capacità di analisi sociale e sulla forza di visione surreale proprie di Rodari (che di Roma non era ma che appunto ne sa descrivere argutamente vizzi e vezzi), ma anche su quell’anima sorniona, pacifica, in fondo ottimista di un “popolo” di cui i protagonisti stessi non possono che sentirsi parte.

Si intitola Marameo al Colosseo questo gustoso bozzetto capitolino che mette insieme diversi testi rodariani adattati ad hoc da Attilio Marangon (alcuni già sperimentati scenicamente in precedenti spettacoli come, ad esempio, Suite Rodari) e che, briosamente diretto da Roberto Gandini, intercetta alla perfezione l’atmosfera scomposta ma satirica delle pagina letteraria, dandole tanto più uno scarto dinamico, un volo plastico, una tridimensionalità possibile solo sulle scene. Merito anche dei colorati costumi di Tiziano Iuno e delle belle musiche di Roberto Gori che, eseguite dal vivo, accompagnano e scandiscono i diversi passaggi della pièce permettendo momenti canori davvero preziosi. Si va dalla storia del filobus che decide di sua iniziativa di dirottare i passeggeri fuori porta per far loro assaporare il piacere della primavera al semaforo che diventa blu aprendo spiragli di un possibile – e auspicabile – viaggio nel cielo; dal nonno ex-ferroviere che si trasforma in gatto e si unisce ad altri umani fuoriusciti dalla specie per schivare la sofferenza di non essere compresi (salvo poi tornare al suo consueto ruolo per amore dei nipoti) all’esilarante quadro della spiaggia di Ostia, talmente affollata che un avventore riesce a trovare riparo solo su una nuvola e vi pianta tranquillamente il suo ombrellone suscitando l’agitata reazione dei bagnanti; dal ladro di rovine che si illude di poter trasferire il Colosseo altrove alla perfida maestra in odore di isteriche smancerie da dark-lady che, complice una macchina del tempo ammorbidita ad usi didattici, trasporta i suoi alunni nel bel mezzo dell’omicidio di Cesare non accorgendosi che si tratta in realtà di un set televisivo di quarta categoria.

Il tutto orchestrato in una scenografia mobile e praticabile smontata e rimontata a vista dagli stessi interpreti (la disegna Paolo Ferrari) e confezionato con un ritmo talmente fluido e armonioso da non rischiare mai il pericolo della macchietta fine a se stessa. Semmai, questa nuova fatica del Gabrielli, che arriva dopo un intenso Woyzeck di Büchner, conferma come il percorso laboratoriale di questi ultimi anni abbia dato vita ad uno stile preciso, una cifra ormai riconoscibile, quasi ad un canone. E in questo canone la leggerezza va sempre di pari passo con l’impegno sociale (arriva nel finale un emozionante messaggio pacifista); il momento formativo ha sempre un doppio valore, umano ed artistico; il progetto di integrazione sposa sempre la professionalità di un teatro fatto bene e bene e bene (evviva!). Motivi per cui viene naturale pensare che sì: se Rodari fosse ancora tra noi, forse tradurrebbe questa avventura in una favola. Una di quelle delle sue.