Lux-Boreal-LAMB-4-DFRANCESCA GIULIANI | Se lo spazio della rappresentazione, quel luogo dove la scena prende corpo è straniero, fisicamente e socialmente lontano dall’ambiente in cui solitamente un gruppo d’artisti crea; se lo spettatore attraversa la loro performance che, oltre a essere “fuori luogo”, è culturalmente lontana dal suo immaginario culturale; se in più il festival, oltre a non inserirla nella giusta situazione scenica, decide di presentarla senza dichiararne la scelta e senza contestualizzarla. Cos’accade alla ricezione? La percezione visuale, sentimentale, porta all’incertezza di senso, rendendo possibile sia una significazione sia il suo contrario. Dallo sconcerto allo stupore, dall’apologia religiosa alla critica sociale.

Nello Studio dell’Hungarian Theater, Interférences ha presentato Lamb, spettacolo nato dalla combinazione artistica tra il coreografo Phillip Adams (Australia) e Lux Boreal (Messico), compagnia di danza tijuanense, che si distingue per un’estetica coreografica atta a innescare la riflessione sulle questioni sociali e culturali che attraversano questa difficile terra di confine. Nel silenzio di un bianco accecante si raccoglie la scena. Tentando di ricreare il loro spazio abituale – la compagnia lavora il più delle volte in spazi urbani tra Messico e California – i performers inseriscono, senza dichiararlo apertamente, cinque spettatori sul palco. Su un lato della scena, posti davanti a dei pianoforti giocattolo, dall’intenso colore rosso, questi diventano parte integrante della ritualità musicale della performance.
Anche gli spettatori in platea – almeno nella ripetizione dello spettacolo, alla prima non è accaduto – sono spesso chiamati in causa. Come partecipanti dello stesso rito, alla stregua di testimoni oculari, sono invitati non solo a osservare ma a partecipare, diventando ben presto parte del rito più sacrilego, una solenne messa cattolica che si trasforma ben presto in asta pubblica. L’officiante della cerimonia è una regina-sposa che si scopre, dal centro palco, per raggiungere con una leggerezza non usuale a quel corpo, i sei agnelli sacrificali di bianco vestiti. Coperta da un vestito rosso, occhiali da sole e un grottesco cappello con veletta che le scende sul volto, la pura e santa vergine mostra ben presto la sua violenta perfidia che, invece di diminuire la venerazione, accende l’adorazione nei seguaci prescelti.

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La narrazione coreografica segue figurativamente le tracce dell’agnello d’oro. La storia, d’ispirazione biblica, intrecciata alla sproporzione ironica dei gesti e delle immagini che questi producono, diventa il mezzo per criticare, attraverso l’imitazione improvvisata dei riti, i sentimenti religiosi che complicano la società e la vita messicana, offuscata, il più delle volte, dal timore di Dio. Sulla scena, la colpa e la punizione, l’adorazione della vergine crudele e l’autoflagellazione con fasce colorate portano al sacrificio finale per il sogno di una resurrezione. Questa danza espressiva, legata al gesto quotidiano e rituale, crea nello spettatore una sorta di spaesamento fisico e temporale. Le potenti immagini coreografiche, fatte di gesti che richiamano le danze cultuali messicane, come lo sbattere ripetuto dei piedi a terra, trascendono il più delle volte in un’esagerazione così grottesca da rendere il rito surreale, ai confini tra una comicità blasfema e una violenta tragicità.