GIULIA RANDONE | Atridi/Metamorfosi del rito, della Piccola Compagnia della Magnolia, è uno spettacolo ricco e ancora felicemente in progress. Ricco perché sul palco accade ciò che la lettura del testo della tragedia, inevitabilmente, offusca: la parola si fa da parte, diviene ancella della luce e del buio, dei corpi sofferenti in cui si incarna. La materia verbale combina fonti antiche (Eschilo, Sofocle, Euripide) e novecentesche (tra gli altri Yourcenar, Sartre, Pasolini) con libertà: non si sottomette ad esse ma neppure le annacqua in una contemporaneizzazione di moda. Un mito non è un tributo e nemmeno un’allusione ai fatti della cronaca. Nel caso di Atridi, è una catena fatale di atti. A saldare tra loro questi anelli drammaturgici è il mutare dell’uomo e delle sue passioni: tema cardine del lavoro della Magnolia ed esperienza tangibile, sulla scena e in platea.

Foto di Stefano Roggero
Foto di Stefano Roggero

La regista Giorgia Cerruti esplora con cura, senza compiacimenti, le relazioni tra i membri di una famiglia, confinandola in un interno spoglio, dominato dalla presenza costante di un telo bianco disposto in verticale. Il cielo e la polis sono evanescenti, l’inquadratura si stringe sugli attori e sullo spazio che li separa dai compagni, dagli oggetti, da chi è in sala. Forse tutto lo spettacolo può essere inteso come un originale studio prossemico, coadiuvato dal movimento della luce. La fonte luminosa scandaglia i rapporti tra i personaggi, sia quando è manovrata dalla regia, sia quando a manipolarla sono gli attori, che ritmano le proprie azioni con lampade e candele, o scalciano rabbiosamente i proiettori che li costringono all’introspezione. Tre scene in particolare possono essere prese a esempio di questa raffinata drammaturgia della distanza.

Al suo ingresso in sala, lo spettatore trova ad attenderlo sul palco due figure in lunghi abiti bianchi, di ispirazione orientale. Sono immobili, accostate, come per uno scatto fotografico. Il buio cala sulla platea, poi discende anche sulla scena. La luce si riaccende ora sul palco, isolando gli spettatori dagli attori. Agamennone e Ifigenia. Una figlia tra le braccia del padre, una giovane donna dalla voce di bambina e il volto coperto da una maschera d’oboli, preludio di morte. Carezze e baci modulati dallo spegnimento delle candele. Una prossimità fatale, principio di ogni sventura.

Elettra (Camilla Sandri), un volto che è “promessa d’uragano”, è congelata in un’irredimibile distanza. Il suo tono di voce stride in qualsiasi dialogo, le sue braccia faticano a cingere perfino l’amato fratello Oreste. Arrampicata su una scaletta, si protende nello sforzo di tracciare sul lenzuolo il ritratto di Agamennone, ma i connotati del padre si confondono, scolorano, costringendola a reiterare la propria azione con una rabbia e un dolore crescente. Elettra vorrebbe una reliquia da adorare, ma la sua memoria produce solo una veronica infedele: strapparla, rifarla, abbracciarla, non servirà a renderla più autentica.

Clitemnestra (Giorgia Coco) ed Egisto (Davide Giglio), figure mitiche di amanti, sono corpi estranei cuciti a un letto con un illusorio punto di sutura. La loro esistenza comune, un brutto rammendo tra un passato colpevole e un futuro sbiadito. Sdraiati uno a fianco all’altra, non sono tuttavia mai realmente uniti, neppure durante la notte: l’uno costretto alla veglia, l’altra a sprofondare in un sonno pieno di incubi, che culmina in un orgasmo sofferente nel ricordo del marito. E proprio nel momento in cui la donna raggiunge l’apice del doloroso godimento, Egisto erompe in un pianto sincero, raggelante. Se la letteratura fa talvolta apparire scialbo, indefinito, il cugino di Agamennone, l’Egisto di Davide Giglio è invece un capolavoro misterioso di aridità e sensibilità, una contraddizione insolubile che nello spettacolo si impone, anche in virtù del suo sentimentalismo vigliacco.

La compagnia – alla quale si aggiungono Ksenija Martinovic nei panni di custode della casa, e Matteo Rocchi, in quelli di Oreste – si muove a proprio agio in una materia drammatica che sottrae preminenza alle parole per restituirla al suono, al gesto (che talvolta si combina in danza, con buoni risultati) e alla relazione tra le differenti posture dei personaggi. Il testo è, di volta in volta, una ninna nanna, un’abitudine scaramantica, un monologo che non cerca comprensione, una formula magica, mentre la voce artefatta e la calcolata distanza tra le posizioni (fisiche ed emotive) degli Atridi sono gravide del ricordo delle ingiustizie passate e del presagio di un futuro di sangue.

Nonostante alcune scelte di regia a nostro avviso poco convincenti, ad esempio quella di affidare l’epilogo a una voce fuori scena dal tono favolistico, Atridi è uno spettacolo che sa toccare il cuore di tenebra dell’uomo, tragicamente alla ricerca di prossimità, di una giusta distanza che gli impedisca di sconfinare da un lato nella violenza e, dall’altro, nell’incesto.