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Hiroshi Sugimoto, El Capitan, Hollywood, 1993

MARCELLA MANNI | Fermare il tempo è possibile, o almeno ci prova Hiroshi Sugimoto con la mostra allestita a Modena.

Hiroshi Sugimoto è nato a Tokyo nel 1948 e si è trasferito negli Stati Uniti nel 1970, a Los Angeles prima, dove ha studiato fotografia, e poi a New York nel 1974, dove tutt’ora vive e lavora. Difficile cercare di definire o quantomeno di circoscrivere la sua attività: antiquario, collezionista, scenografo, designer, autore di libri, e, dal 2008 anche con un proprio studio di architettura, con il quale nel 2009 ha realizzato il progetto per l’Izu Photo Museum a Mishima.

Per capire la sua ossessione, questa sì circoscritta, per il concetto del tempo è proprio dalla sua attività di antiquario che si deve partire. Come lui stesso dichiara, parafrasando, “facevo l’antiquario perché all’inizio della mia carriera non pensavo mi sarei potuto mantenere vendendo le mie fotografie”, lo zen sì, ma immediatamente calato nello spirito calvinista americano. La tendenza a ricercare, scavare, classificare studiare, cercare connessioni si è naturalmente mescolata e trasposta nel suo modo di fotografare. La fotografia diventa quindi una ricerca costante e ossessiva di nessi, di relazioni tra ciò che viviamo e ciò che vediamo. Perché proprio da 180 anni, dalle origini se così si può dire, della fotografia, il nostro modo di guardare il mondo è cambiato, in un fluire sempre più rapido di immagini, si fa sempre più necessario l’atto di fermare almeno alcune di queste immagini, di questi “frammenti temporali immobili”, come li definisce lo stesso Sugimoto.

Non è quindi un caso che il lavoro di Sugimoto sia, fino dall’inizio, di natura seriale. La raccolta, il confronto, la ricerca, la variazione sul tema, sono tutte azioni che riflettono la caratteristica fondamentale di un artista tanto poliedrico quanto fedele a se stesso. I Dioramas sono una parte importante di questa ricerca, una serie che ha prodotto per più di trent’anni, a partire da una prima osservazione al Museo Americano di Storia Naturale, dove lo scarto tra la ricostruzione fittizia degli sfondi e l’estrema veridicità degli animali impagliati lo blocca, rendendolo consapevole di uno dei tutt’ora fondamentali e non esauriti nodi concettuali della storia della fotografia: il rapporto tra realtà e finzione. I Dioramas di Sugimoto assumono, ricercano soprattutto, quel carattere di realtà che è però restituito in modo fittizio, canone della rappresentazione. E realtà e finzione tornano nelle serie dei ritratti (Portraits, 1994-1999), dove la storia è qui data da un lato dalla tradizione pittorica del ritratto, van Dick e David in testa, e il dato contemporaneo, presente, si ritrova nei soggetti fotografati, che sono sì Napoleone Bonaparte o la Queen Victoria, ma fotografati dalle copie in cera di una delle grandi fabbriche di icone contemporanee come le cere di Madame Tussaud. Le leggi temporali sono annullate, la storia è immediatamente attualizzata in un bianco e nero gestito con magistrale sapienza.

E sì, perché il dettaglio, se così lo si può definire, della stampa non è per nulla un dettaglio nella sua ricerca artistica, che va sempre più affinandosi e stratificandosi, concettualmente e formalmente. Nei più recenti Photogenic Drawings (2008-2010), le stampe sono ottenute a partire da alcuni negativi originali di W.H.Fox Talbot mai stampati prima, che offrono a Sugimoto la possibilità di agire direttamente sul tempo, utilizzando la tecnica originaria se così si può dire, del disegno fotogenico, cioè ottenuto con la sovrapposizione di oggetti su un foglio di carta fotosensibile esposto alla luce. Sugimoto realizza quindi questo salto temporale non tanto fittizio, collegando passato e presente, restituendo una traccia fisica, assolutamente concreta di questa connessione. Quasi una storia della rappresentazione è al centro della serie Theaters alla quale Sugimoto lavora fino dal 1976: iniziata con le sale cinematografiche americane degli anni Venti e Trenta, segue poi i cambiamenti della produzione e fruizione cinematografica passando per i drive-in fino ai teatri classici italiani, ai quali sta lavorando in questi ultimi anni. Il lavoro di riduzione all’essenza, di compressione spaziale a temporale passa attraverso un lunghissimo tempo di esposizione che riduce la ripresa di un intero film, di quello che è un accumulo e un sovraccarico di immagini, alla sola luminosità dello schermo.

Ed è in questa serie, forse non a caso tutt’ora in corso, che è racchiusa l’essenza del lavoro di Sugimoto, un lavoro che più che fermare il tempo, che bloccarlo, per comprenderlo, o quantomeno cercare di comprendere il mondo, sembra in realtà in grado di interpretare al meglio il suo scorrere. Sugimoto quasi fluttua, come per ukiyo-e, in un mondo che è mutevole, fluido, sfuggente a una classificazione, ma con un tempo che, come onde del mare, ritorna e restituisce frammenti, oggetti, tracce di un passato che disvela in questo modo gli evidenti richiami e ritorni nel presente. Le sue costanti, le si potrebbero quasi chiamare.

Hiroshi Sugimoto.Stop Time

a cura di Filippo Maggia

fino al 7 giugno 2015

Foro Boario, Modena

www. fondazionefotografia.org

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