F_af27d9be08RENZO FRANCABANDERA | In una sorta di museo degli orrori un figurante travestito da boia solleva il drappo nero per mostrarci delle ideali gabbie all’interno delle quali sarebbero rinchiusi i supplizi della società contemporanea. Si tratta dei quattro elementi fondanti la sub umanità del nostro tempo secondo lo sguardo irrisorio di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, da ormai quasi 10 anni uniti in un sodalizio artistico denominato Fibre Parallele che ha all’attivo diverse drammaturgie, trasformate poi in spettacoli diretti e interpretati per la gran parte da loro stessi, e anche numerosi riconoscimenti artistici.
Nulla da prendere sul serio, in questo caso, visto che i quattro episodi alludono in modo divertito sia ad elementi da sempre presenti nel consesso umano, come la coppia, sia sopravvenienze più recenti, come l’individuo vegano.
E tre dei quattro micro racconti sono interpretati da entrambi gli attori mentre il giocatore, il secondo dei quadri, e interpretato per la quasi interezza dal solo Riccardo Spagnulo che ha con sé un piccolo pupazzo di gomma piuma cui dà vita con una serie di cambi voce di particolare bravura.
La coppia, il primo quadro, è sicuramente dal punto di vista testuale, e forse anche recitativo, l’episodio più compiuto dei quattro. In una scena spoglia a parte il divano bianco al centro, illuminata da un incrocio di proiezioni di luce che filtra dalle finestre, una sorta di gabbia luminosa immaginata dalla solita interessante trovata di Vincent Longuemare, una giovane coppia borghese del nostro tempo racconta con ironia i disagi i tormentosi della vita di coppia, dalle prime mosse fra i banchi di scuola fino alla crisi nella tarda adolescenza, il matrimonio che trasforma il legame in vera e propria schiavitù con tanto di catene, che legano i due protagonisti della vicenda al divano, sul quale troneggia forse unico essere vivente libero, il gatto.
Lei è vestita di bianco, lui di nero e già in questo appare chiara l’intenzione oppositiva fra i due caratteri, che infatti si rivela pian piano, in un recitato che prima scambia le battute fra i due e poi le sovrappone, generando via via un caos relazionale inestricabile.
Lo sviluppo segue poi su un registro ironico-noir fino ad un finale in cui la torta nuziale diventa mangiatoia e affanno per i due individui ormai ridotti allo stadio ferino.
Quella del cibo non è un’apparizione episodica, ma ritorna a vario titolo negli altri episodi. Il giocatore rosicchia nervosamente noccioline o qualcosa di simile e nell’ultimo episodio la brutalizzazione del vegano con cibi della tradizione carnivora in ogni modalità possibile sono la più chiara manifestazione dell’elemento simbolico del cibo come luogo non solo della vicinanza ma anche del conflitto.
Anche nell’episodio della badante, infatti, il cibo fa il suo ingresso in scena sotto forma di pappetta alla cui ingestione a cucchiaio il vecchietto deve sottoporsi, in contrapposizione al mussolinian-nerboruto flusso di coscienza che gli scorre in sottofondo; pappetta che finirà per sputare sancendo, nello sbavarsi di minestrina, il suo degrado e il suo cedere alla vecchiaia.
È così che i suoi ragionamenti centrati sull’idealità nazionale e di tono conservatore, stridenti con quelli di poco precedenti del secondo episodio, che aveva come protagonista il sottoproletario che ha appena ammazzato la madre facendola a pezzi e conservandola in frigo per poterne ritirare la pensione, sembrano una dittatoriale dichiarazione di guerra con truppe di cielo mare e terra alla badante, tutta presa nel ruolo di superstar snob di una vicenda fatta di calze color carne, secchi e scopre.
Se nei quadri de la coppia e il giocatore lo spettacolo raggiunge vertici di maggior completezza, i due elementi che vengono proposti dopo un breve intervallo, sono più deboli e meno compiuti. Pur riconoscendo la scelta registica dell’ingegnosa trovata del doppio (uomo donna e voce off) entrambi gli episodi (la badante e il vegano) sono affetti da una maggior fissità oltre che da un umorismo meno graffiante e più compiaciuto.
E’ infatti quando la loro ironia sociale è più tagliente che le figure risultano sbalzate a tutto tondo facendo sì che il pubblico accetti anche un secondo quadro recitato praticamente integralmente in dialetto pugliese proprio perché, al di là della comprensione idiomatica, quello che rileva è i puzzo del sottoproletariato che quella stanzetta emana. Gli altri due episodi partono da idee originali ma le portano meno lontano, determinando di per sé una lunghezza forse eccessiva dell’opera, le cui vette sono nella prima parte; dunque forse anche la partizione emotiva ineguale fra le due metà lascia una sensazione di parzialità nell’esito.
Innegabile individuare nel confronto fra il giocatore e la figura della madre defunta un momento esaltante e antietico nella vicenda dove un pusillanime non-Ulisse non può che dichiarare alla sua Teti i fallimenti della sua esistenza.
Da questo punto di vista lo spettacolo sicuramente entra, visto un po’ più da lontano, all’interno di un filone interessante e ultimamente praticato da alcune compagnie di autonoma drammaturgia come Carrozzeria Orfeo, Fratelli Dalla Via e altre generazionalmente coerenti, all’interno di un quadro di drammaturgie la cui cifra si compone di satirico grottesco, dinamiche umane, consesso familiare allargato, della società come specchio delle paure e delle debolezze dell’individuo incapace di confrontarsi con l’altro da sé.
Questa particolare forma del teatro è fra le più difficili da praticare e benché i lavori di queste compagnie finora abbiano avuto un esito assai soddisfacente, il risultato finale rimane, in certa parte, parziale forse anche perché sperimentato in una fase della vita artistica in cui la maturità non è ancora del tutto raggiunta. Pare quasi sia un codice di transizione generazionale, un modo di guardare la realtà connaturato ad un tempo storico e artistico.
Non si può in questo quadro non menzionare la crescita nella scrittura scenica da parte di Riccardo Spagnulo, che ha fatto anche importanti progressi nella presenza scenica e si qualifica come attore di sicuro interesse soprattutto nel racconto della figura maschile e della sua problematicità. In alcune scene pare di rivedere istinti e movenze alla Mastroianni.
Per contrasto la figura di Licia Lanera vive di una presenza in scena più legata al timbro e alla sua cifra acida e sottilmente rude, quasi mascolina cui fa da contrappeso una femminilità accentuata. E’ forse questa dicotomia a rendere il sodalizio di Fibre Parallele così interessante e in costante crescita come abbiamo potuto testimoniare ancora di recente da queste pagine: una compagnia in grado di sfidarsi e pensare a se stessa in una maniera particolare e originale, centrata nel fare, ma che sa anche imparare dai propri esiti, cercando di perfezionarsi verso una qualità nella proposta che si fa via via più significativa.