divineparoleLAURA GHIRLANDETTI | In una comunità di “ultimi”, derelitti e miserabili, vive un padre sacrestano che ha deciso di credere nella parola divina; la sua quotidiana lotta contro la sozzura morale e fisica in cui è immerso, è espressa nella ferma decisione a non calpestare il pantano che si estende ovunque attorno a lui: con delle assi di legno, costruisce giorno dopo giorno, pervicacemente, un sentiero, una via, per raggiungere la chiesa; tutti gli altri però sembrano ignorare il senso di questa faticosa e costante opera. Tutti infatti, senza eccezione, sprofondano volentieri all’interno di un fango vischioso, che è soprattutto metaforico, e rimanda ad un male morale profondo, ed al contempo inconsapevole.
Questa è la prima grande dicotomia che si legge attraverso la resa essenziale ed estremamente efficacie della scena, che si estende per diversi metri come terreno fangoso, contrapponendo verso il fondale una struttura cubica, immacolata, con un’immagine al centro di Cristo sofferente.
Bruciante è qui reso l’eterno scontro tra pulizia e sporcizia come rimando all’innocenza contro il peccato, e di conseguenza della vita contro la morte.
La prima vera occasione di scontro, all’interno di questa disperata comunità, è data dell’eredità rappresentata da un carrozzino contenente un bimbo presumibilmente down; come degli avvoltoi affamati, le attenzioni degli abitanti del villaggio aleggiano sulla possibile questua, e conseguente resa economica del bimbo.
Avviene così un contrastato patteggiamento: il carrozzino sarà spartito tra gli eredi a seconda dei giorni della settimana; ma ben presto diventerà un peso, e qualcuno in un momento di grande confusione e disattenzione, forse senza nemmeno troppa consapevolezza, uccide il piccolo.
In una scena straziante dove la madre morta urla tutto il suo dolore, accompagnata potentemente dalle note di una musica da requiem, inizia la tragedia: nessuno vuole prendersi carico di questa disgrazia, il bimbo verrà palleggiato da una casa all’altra, nell’oscurità della notte, e proprio qui avverrà lo scandalo: alcuni maiali faranno scempio del bambino, mangiandogli il viso.
Con grande concitazione, si deciderà infine di dare pronta sepoltura all’Innocente.
Nel frattempo in casa dell’unico giusto, Pedro Gailo, la situazione è precipitata: la moglie rincasa sempre più tardi, ed è sotto gli occhi di tutti, e ormai evidente il suo sguaiato tradimento.
Padre Gailo non si fa mancare patimenti profondi e ambigui, arrivando persino a compiere un incesto con la figlia.
In una notte disperata, proverà il timore di se stesso, e non saprà se obbedire alla legge degli uomini o a quella di Dio; a mano a mano anche lui inizierà a non fare più caso al fango, anzi, scaverà con le stesse mani nella sorda materia, e insozzerà lui stesso il luogo sacro, con i suoi dubbi, i suoi pensieri, e le sue abominevoli azioni.
In questa piéce scritta da Ramón María del Valle Inclán (1866-1936) come una parabola senza tempo e coordinate spaziali precise, si perpetua la domanda se un vivere secondo una norma morale sia possibile e abbia senso all’interno di un mondo in cui prevaricazioni, logiche predatorie, bassi istinti, e crudeli rituali sono la normalità; se a contatto con questi uomini ormai diventati fiere feroci, senza scrupoli, e certamente senza un Dio, sia possibile mantenere saldo un baluardo di nobiltà umana.
In questo panorama di totale abiezione, vengono sgranati come in una preghiera alla rovescia tutte le fragilità umane, e le immediate e più abiette conseguenze: lussuria, avarizia, incesto, assassinio, invidia che porta alla tortura e al tormento.
L’azione si compie quando tutta la comunità inferocita porta la donna fedifraga, ormai completamente spogliata davanti alla casa del marito e padrone; pretendono una giustizia umana: l’uccisione della donna, ma Pedro Gailo dopo tante lotte contro se stesso e la propria coscienza citerà la frase di Cristo davanti all’adultera: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” con la scritta latina proiettata in evidenza “qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat”.
La comunità però non lo accetta, e non riconosce la verità immediata di questa parola, lo infangheranno completamente, ed indignati dalla mancata punizione, se ne andranno schifati.
Il finale è completamente senza redenzione, e ancora una volta altamente metaforico, si vedrà l’amante appeso per un piede a testa in giù, scalciante, come un angelo recalcitrante respinto dal cielo.
La logica divina si sa, ribalta completamente la visione umana, eppure alla fine ne è a lui fortemente connaturata in quanto lo nobilita, senza di questa, l’uomo lasciato a se stesso è senza scampo, profondamente intriso di colpa e crudeltà.
Un cast davvero eccezionale, ed una regia impeccabile e dalla resa scenica fortemente contemporanea ed efficace, riescono a rendere un dramma morale del 1919 abbastanza ostico, ancora godibile e fonte di nuove e vigorose domande.