foto Andrea Pizzalis

RENZO FRANCABANDERA | Questa estate post crisi ha iniziato a spingere molti, fra critici e operatori, stretti da contingenze legate ad erogazione fondi, riassestamenti territoriali, tagli ai budget, a ragionare su alcuni fatti stilizzati che hanno determinato e determinano in certe realtà il raggiungimento di obiettivi desiderabili per la sostenibilità degli esperimenti artistici.

Ne consegue anche l’abitudine di volersi interrogare sui motivi del successo, così da capire se esistono pratiche virtuose che aiutano a determinare l’affermazione.
Iniziamo quindi ad esaminare alcuni casi su cui il giudizio dei partecipanti e degli operatori è abbastanza netto da tempo, per riflettere, condividere, discutere, confrontarsi.

1 – RIPENSARSI
Dal 26 luglio al 2 agosto 2015 negli spazi di Centrale Fies si è tenuta la 35esima edizione di Drodesera, un festival ad originaria vocazione territoriale e “di strada”, figlia degli anni 70, potremmo dire, ma che nel decennio 2000-2010 in particolare ha subito una nettissima inversione per arrivare a caratterizzarsi come uno dei pochi centri/incubatori italiani dedicati alla declinazione più performativa delle arti, un progetto assai articolato che si propone a livelli multipli, dal Festival alla Factory, dal Centro di Irradiazione culturale e produzione ad Incubatore. Centrale Fies, come luogo e come concetto, è un esempio della capacità di ripensare e ripensarsi, e pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, è uno dei pochi e per certi versi l’unico centro in Italia capace di affermarsi a livello internazionale come sede ospitale per performing art, exhibit, site specific, video ed ogni forma di spettacolo dal vivo, di eventi come festival, esposizioni, manifestazioni; ma è anche un sito in grado di ospitare corporate meeting, tavole rotonde, work-shop. Era un castello, poi un centrale idroelettrica, e adesso incubatore per le arti. Se non è ripensarsi questo…

2 – COMUNICARE
E’ innegabile e può piacere o meno, ma il segno distintivo di Fies è la comunicazione all’esterno. Perchè poi, nella sostanza, a Dro ci sono gli stessi ingredienti che ci sono in moltissimi altri festival, diremmo che almeno per quanto riguarda il Festival in sè, poco lo distingue da quanto si trova altrove, ma a Dro comunicano tutto molto molto meglio che altrove. E questo è un dato di fatto. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, il dato di fatto nudo e crudo è che Dro ha imposto un marchio, un concept, Fies in meno di dieci anni, dopo la svolta, diciamo, è diventato un nome noto in Italia e non solo. Quanti Festival possono vantare tutto questo, in un’Italia di campanili e festival d’estate? Non bastano solo i soldi di una regione ricca e attenta, che ha sostenuto il progetto in molti modi, a spiegare. Si può continuare ad avere l’anima della sagra ma spostandosi poco poco nel terzo millennio?
3 – IL PUBBLICO

Dal punto 2 discende che questo posto ha saputo intercettare opportunità di dialogo con circostanze e interessi anagraficamente molto vari. Quasi tutti i ragazzi coinvolti anche solo negli stage parlano altre lingue, accolgono in modo “contemporaneo”, non stanno a chiamare la cugina per tradurre dall’inglese con l’ospite esotico, e anzi l’esotico è di casa. Mentre ero lì quest’anno ho visto arrivare giovani ospiti ma anche operatori e pubblico da mezza Europa, dalla Slovenia come dalla Germania. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, sul tavolo ci sono anche questi risultati.

4 – OLTRE CONFINE
Che va bene stare attenti alle compagnie del territorio… Che va bene che l’assessore se non fai fare le giornate ENPALS a tizio o caio poi ti rompe, ma con questa filosofia, quest’anno più che mai, in giro sono stati infilati nei festival cose davvero al limite dell’imbarazzante. Un’ondata di filodrammatiche ed esperimenti paraparrocchiali che sono un dazio assai impegnativo da pagare per chi lavora sul territorio. Anche perchè, come diremo nelle prossime puntate, si può rimanere puri anche in povertà, aguzzando ingegno e intelligenza. Dro da sempre guarda all’estero, porta in Italia artisti che non si vedono se non qui. Mettiamo il caso di Philippe Quesne, ad esempio, da tre quattro anni fisso nella loro programmazione, la cui estrosa genialità avevo segnalato raccontando dell’edizione 2010 del Festival di Avignone dove con il Vivarium Studio proponeva “Big Bang”, un esperimento oltre il linguaggio, che saltava la comprensione, il senso logico. Una sorta di fumetto raccontato in uno spazio asettico. E per molti versi anche il suo lavoro proposto nell’edizione di quest’anno ha la stessa cifra. Quesne è uno dei pochi artisti per i quali il principio di impredittibilità governa la creazione. E questo è un valore, che spesso va oltre persino l’esito finale.

5 – MA ANCHE DENTRO
E poi guardando all’Italia, qui da anni c’è la sperimentalità più interessante condensata in una settimana. I grandissimi della regia non ortodossa, le compagnie della ricerca semiotica, i nuovi soggetti della creatività performativa. Poi magari il tutto viene condito di foto su Instagram con l’effetto vintage dell’ Iphone, ma anche dando spazio a giovani occhi armati di obiettivo, come lo sguardo felice dietro la macchina fotografica di Andrea Pizzalis, per esempio (per nominare giusto l’ultima delle creatività aggiuntesi a questo gruppo). Pochi hanno dato a compagnie in costruzione tre anni di fiducia e sostegno. E quei pochi hanno giocato un po’ più sul sicuro di come ha fatto Fies. Perchè dare a due ragazzini poco più che ventenni che agitavano pezzi di ossa dietro una tenda bianca una residenza triennale non era da tutti. Anzi. E pur nello stucchevole dibattito… dal 2007 i soldi nel piatto per far nascere e/o crescere Pathosformel, Grilli, Cuscunà, Teatro Sotterrraneo, Codice Ivan, Anagoor, giusto per dirne qualcuno, ce li hanno messi loro. E loro, che hanno saputo vedere più lontano di altri evidentemente, sono cresciuti con questi nomi, aiutandoli (a differenza di altri) a circuitare in modo feroce, invece che farsi interpreti di quella volgare abitudine di produrre per un giorno solo e alimentare le statistichine per il ministero e avere l’elemosina.

6 – IL BRAND CAPACE DI PROPORRE
Il risultato di cui al punto 5 si riverbera in questo punto 6. Perchè il brand Fies è diventato così forte da essere capace di proporre e imporre nomi che diversamente non farebbero smuovere pubblico nè operatori, andandoli a scovare in mezza Europa, dall’Islanda in giù. E così nomi come Söderberg & Willekens, Kovanda, o Ómarsdóttir e Jóhannsson vengono coraggiosamente proposti insieme ad autorevoli nomi italiani e stranieri, perchè per loro garantisce il marchio. Non sale da 1000 posti ma 350-400 spettatori che ogni sera seguono, uno di fila all’altro, dai 3 ai 6 spettacoli di ispirazione mista, fra l’installazione, la performance, lo spettacolo tradizionale.

7 – IL CALENDARIO
E qui poi, viene fuori il tema di quella allucinante abitudine introdotta a metà del decennio 2000-2010 da alcuni festival, di inzuppare il programma di mille eventi in sovrapposizione uno all’altro per giunta in luoghi irraggiungibili fra loro, così che il già sparuto pubblico teatrale doveva scegliere fra due o più artisti, con il risultato, battezzato dall’antico detto meridionale “Spartisci ricchezza che diventa povertà”, che le sale di questo o quello spettacolo erano mezze vuote, mentre il pubblico e gli operatori si concentravano in pochi eventi. I forzati alla corsa e alla rincorsa facevano poi sì che tutto partisse in enorme ritardo, perchè bisognava aspettare il mitico “pullman dei critici” senza i quali non si poteva dar inizio alle feste, con scene di delirio e isteria ottuagenaria per ritmi infernali insostenibili. Calma. Qui non si sbaglia. Un treno di spettacoli uno dietro l’altro dalle 19 alle 23,30, chi vuole scende dal treno, si ferma e risale sullo spettacolo successivo, ma tutti vedono tutto, chi viene è incentivato a seguire tutto quello che c’è, e così il numero di spettatori è costante, coerente con gli intenti, respira comunità.

8 – L’ARCHITETTURA
Sarà che perfino i piloni dell’energia elettrica qui vengono illuminati in modo fascinoso, ma lo spettatore ha il senso di essere in un posto bello. L’idea del bello che non è solo il paesaggio, che pure qui c’è, ma quel poco o tanto che l’uomo può aggiungere per trasformare l’esserci in esperienza estetica e dei sensi (si veda anche la pratica installativa insistita, che quest’anno ha avuto due capisaldi ad esempio in proposte come Les Thermes di France Distraction/Belinda Annaloro, Antoine Defoort, Julien Fournet, Halory Goerger, Sébastien Vial (FR/BE), o The house of immortalities, di Mali Weil (IT) centrate nella ricerca fra luogo archetipico e conoscenza ancestrale), quel poco o tanto, dicevamo, qui c’è. E in realtà basta poco. Si, certo, magari altrove usano quel denaro per pagare un lavoratore invece che per accendere un faro sugli scogli del fiume o nel pilone dell’energia elettrica. Per carità. Però molti festival diventano spesso sfoghi per lavoretti socialmente utili che mostrano in modo volgare e bieco l’incapacità di produrre competenza, facendo sì che tutto resti manovalanza senza specializzazione. Insomma assistenzialismo della peggior specie, che spiega di per sè la debolezza di alcune direzioni artistiche rispetto ai ricatti del territorio. Pratiche queste, molto poco fighe.

9 – IL FUTURO
Fies è un festival che come altri è anche e sopratutto residenza durante l’inverno, lavoro continuativo di molti anche prima e soprattutto dopo. E l’efficacia del sistema di produzione, che ha saputo invadere i teatri italiani e che vede un nome in ogni rassegna “Altri percorsi” in quasiasi città italiana si vada a parare, ne è la prova.
Poche storie: ci sono festival roboanti con budget milionari che per anni non hanno circuitato nemmeno nelle città della provincia le loro produzioni. Il Napoli Teatro Festival da questo punto di vista è proprio l’esempio di come non vorrei un festival, con una struttura faraonica per anni incapace di vendere quello che proponeva oltre le date del Festival. Cose fatte e morte lì. Un sentimento dello spreco dell’energia umana che ho sempre trovato fastidiosissimo. Sarà che qui c’è la parsimonia trentina, ma è un dato di fatto che nulla che abbia messo piede in Fies sia andato sprecato. E questo al paese mio, è molto figo. Sa di sostenibilità, sa di futuro.

10 – E POI, DEO GRATIA, IL TEATRO
Quella roba di luci accese e spente. Di buio in sala. Di gente che respira assieme emozioni. Di creazioni di senso. Una programmazione autorevole, che messa a confronto con quella di festival votati al contemporaneo da non meno tempo, ma forse più sciatti nella scelta unitaria, ha fatto si che questa edizione, come e per certi versi persino più di altre, abbia segnato un passaggio deciso nella storia della pratica della cultura scenica in Italia. Non sono un fan della supremazia del marchio, della comunicazione spinta, della novità che si fa marketing, ma è innegabile che tutti questi elementi, che pure per molti versi contraddistinguono Fies e sono gli elementi su cui spesso si concentrano le critiche a questo progetto, qui non sono mai separati da risultati tangibili dell’azione professionale. Cioè qui il teatro si fa. E attenzione, a differenza di molti altri posti, non si fa il teatro fatto con gli spettacoli dello stesso direttore artistico che dirige la baracca. O dell’accolita dei questuanti, costretti ad umilianti anticamere. Perchè se è vero che a Fies l’immagine è molto, anche queste immagini di cui abbiamo detto e che fanno subito venire in mente molti, molti altri festival, non sono belle da vedere, e segnano lo spartiacque fra quello che dovrebbe essere il futuro di quest’arte e quello che no.

Nelle prossime puntate parleremo di altri festival, meno brand oriented, con più fumo di salamella che fumogeni in sala, ma che hanno lo stesso i requisiti dell’esperienza di successo, proprio per capire che non esiste un’unica ricetta per il buono, come la ristorazione insegna, ma molte. Con un unico ingrediente comune: la cura. Al dentro e al fuori. A chi c’è e a chi arriva. A chi c’è e a chi ci dovrà essere.

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