imageMARIELLA DEMICHELE | Sono consapevole del compito paradossale che mi attende con queste righe: “svelare” con gli strumenti di una conoscenza discorsiva ciò che per sua natura richiede oscurità e mistero. Le fonti antiche, non a caso, usano per Kore – la Persefone del mito greco cui Virgilio Sieni si è ispirato per questo lavoro – l’appellativo “ragazza indicibile” per esprimere non solo l’ambivalenza della sua doppia natura di fanciulla rapita e di potente e temibile regina dell’oltretomba, ma la sua profonda dimensione misterica che va ben oltre la storia sacra del rapimento, dell’erranza di Demetra e del ricongiungimento o la semplicistica interpretazione che vede in questo mito il simbolo dell’alternarsi delle stagioni. L’indeterminatezza della “fanciulla divina”, infatti, se “tende ad annullare la distinzione tra la donna (la madre) e la fanciulla (la vergine)”, allo stesso tempo – così Giorgio Agamben nel suo La Ragazza Indicibile. Mito e Mistero di Kore -“lascia apparire una terza figura che mette in discussione tutto quello che, attraverso di esse, crediamo di sapere della femminilità e, più in generale, dell’uomo e della donna”.
Mistero, dunque, nel quale ci introduce una superba Ramona Caia, attraverso “quadri viventi” resi ancora più suggestivi dalla scarna sobrietà dello spazio scenico della Pelanda.

Si comincia dalla Kore fanciulla, in ginocchio, con un abito perlaceo di foggia seicentesca e una parrucca bianca che le copre il viso; si muove scivolando sul pavimento compiendo movimenti del busto, della testa e delle braccia che ricordano quelli di una bambola meccanica. Improvvisi stacchi di luce consentono alla danzatrice di riposizionarsi nello spazio, percorso in diagonale, di spalle, fino all’ultimo buio dal quale riemerge strisciando dal fondo, offrendo ai nostri occhi la vista di muscoli contratti nello spasimo dello sforzo fatto per raggiungere sul proscenio il fascio di luce che la accoglie con le parole di Euripide: “Ti chiamo con voce di barbaro, con preghiere di barbaro”.

Nel secondo quadro c’è un cambio di costume: una tuta e un copricapo a forma di turbante che, ancora una volta, scende a coprire il viso. Alcuni movimenti ricordano le danze tradizionali indiane ma, nell’ultima parte, l’artista perde ogni connotazione umana, fino ad assumere le sembianze di un insetto: si assiste ad una metamorfosi, al superamento di quella soglia che – come scrive ancora Agamben – “divide e unisce l’animale con l’uomo (e col dio) e l’uomo (e il dio) con la sua animalità”. Kore si colloca su questa soglia che separa i due estremi – il dio e l’animale – tra i quali oscilla l’esistenza umana. Una condizione dalla quale è bandita ogni certezza come evidenzia la scelta di movimenti sbilanciati lateralmente del busto e della testa che impediscono alla danzatrice di camminare in posizione eretta.

La “geografia di muscoli e tendini” che da tempo spinge Virgilio Sieni a sperimentare le potenzialità espressive del movimento, superando quella disciplina tradizionalmente definita danza, è qui funzionale ad una riflessione di natura filosofica: precaria è la salvezza offerta dai misteri greci, costantemente in bilico su di un sentiero sospeso tra gli dei inferi e gli dei superi. Anche la Kore vestita di rosso, nonostante l’abito che denota consapevolezza della propria femminilità e dello status di “potente sovrana dell’Averno”, continua a barcollare, a strisciare e contorcersi sulla terra percuotendola con i gomiti; il suo volto, se scoperto, è volutamente inespressivo, chiuso nella fissità ieratica delle statue greche o – per riprendere un’intuizione di von Kleist – delle marionette, per sottrarre identità individuale a colei che è simbolo universale della “vita che non si lascia dire”. Eppure, all’interno di questa partitura liturgica costruita attraverso la studiata ripetizione di musiche – composte da Angelo Badalamenti, Francesco Giomi e Arvo Pärt – e movimenti, le posture esitanti si aprono in improvvisi slanci verso l’alto con l’impeto di un corpo che desidera l’ascesa – anche se solo per un attimo – fissando la fluidità incessante delle sequenze coreografiche in attimi di rarefatta eleganza.

Una sorta di metafisica del movimento alla ricerca di una purezza originaria da trovare al di fuori della consapevolezza riflessiva, dal turbamento della coscienza, in uno spettacolo in cui il pensiero diventa visione.