LAURA NOVELLI | Sono passati quasi dieci anni da quel riuscito allestimento di Morte di un commesso viaggiatore in cui Eros Pagni (diretto da Marco Sciaccaluga) interpretava un Willy Loman dalla compostezza dignitosa e insieme dalla febbrile drammaticità. Rammento che quel lavoro mi aveva colpito molto, regalandomi il desiderio di leggere più approfonditamente le opere di Arthur Miller. Nel ritornare adesso ad accostarmi ad un altro suo testo, Il prezzo (1968), il ricordo di quello spettacolo si fa ancora più vivido e nella messinscena di Massimo Popolizio vista al teatro Argentina di Roma ritrovo lo stesso stratificarsi di sensazioni ed emozioni diverse, persino contrastanti, provato allora. Anche in questa commedia si parla di padri e figli, di scontri generazionali, etici, emotivi; si allude a incomprensioni familiari, desideri frustrati, universi maschili inesorabilmente alle prese con disillusioni acri e con resoconti esistenziali deludenti. Ma vi è dell’altro a dettare un’attualità non comune a tutti i capolavori del drammaturgo statunitense: la crisi di un sistema familiare quale cartina di tornasole della crisi di un’intera società si fa qui, infatti, un tema urgente, sorretto da una critica feroce verso quel “bi-sogno” economico e quella sete di guadagno che vorrebbero assurge ad unici parametri di relazione umana e di riuscita personale.

D’altronde, è stata proprio l’estrema modernità del testo a convincere Umberto Orsini (produttore e sublime interprete nel ruolo di Gregory Solomon) della necessità di portare in scena l’opera (assai poco rappresentata qui da noi se non fosse per le diverse regie di Raf Vallone datate ’69 e ’87) affidandone la traduzione a Masolino D’Amico, promuovendone la prima edizione italiana (Einaudi) proprio quest’anno che ricorrono i dieci anni dalla morte di Miller e affidandosi ad attori/compagni di viaggio che non hanno davvero bisogno di presentazioni: lo stesso Popolizio interpreta Victor Franz, Alvia Reale è sua moglie Esther ed Elia Schilton suo fratello Walter, tutti estremamente bravi.

Da un lato del palcoscenico: una catasta di mobili coperti da pesanti tende che lasciano intravedere un ampio tavolo di legno, qualche poltrona, qualche sedia rovesciata, un comò. Dall’altro lato: una scala metallica da cui scendono i diversi personaggi e che irrompe con gelida geometria nel clima caldamente nostalgico del mobilio. Ancora più nostalgico è poi un giradischi piazzato sul proscenio dal quale risuonano note malinconiche, non a caso scelte per aprire e chiudere lo spettacolo.

Già questo impianto scenografico – a firma di Maurizio Balò – permette di intuire che la partita scenica si gioca essenzialmente sul contrasto tra passato e presente, rimorsi e rivendicazioni: due fratelli non più giovani si ritrovano dopo molti anni di separazione e di estraneità reciproca e si illudono di poter ricostruire un rapporto in occasione dell’eredità che ha lasciato loro il padre, spinti dall’urgenza di dover vendere tutti gli oggetti di famiglia per via dell’imminente demolizione del palazzo in cui il genitore aveva vissuto. Uno dei fratelli (Victor) è un poliziotto ultracinquantenne che ha sacrificato tutta la sua vita e la sua intelligenza per accudire il padre (self made man di successo caduto in disgrazia in seguito alla crisi del ’29, proprio come avvenne al padre stesso di Miller) accontentandosi di un impiego mediocre e frustrante; l’altro fratello (Walter) è invece un chirurgo di fama che ha tagliato i ponti con la famiglia e che si fa vivo proprio in occasione della vendita di quei mobili sul cui ricavato si incentra l’intera discussione. Discussione ampliamente fomentata da Esther, una donna depressa e fortemente delusa dalla non riuscita sociale del marito che tenta in ogni modo di difendere le sue ragioni. Sembrerebbe dunque una faida di famiglia come tante.

Ma, in questo quadro di fragilità umane verisimili e desolanti, il drammaturgo inserisce genialmente una quarta, straordinaria (ma vorrei dire “extra-ordinaria”), figura: il compratore ebreo Solomon, novantenne dall’aria stralunata ma arguta che sembra un ragionatore pirandelliano capace di battute sagaci e di saggezza filosofica. E’ lui che riporta l’ago della bilancia alla giusta misura; è lui che cerca di mettere poesia in una avvilente disputa tra consanguinei; è lui che guarda la situazione – e ci guarda e li guarda – da fuori, con il distacco ironico di chi ne ha passate tante. Solomon ha fatto tanti mestieri, è stato persino acrobata e qui gli riesce la sua acrobazia più vera: quella di spingere i personaggi ad una resa con se stessi e con la loro storia, ad una confessione che restituisce dignità a chi la merita, facendo una netta distinzione tra il denaro e l’uomo, il guadagno e i sentimenti. Orsini si regala un ruolo enorme e struggente e ci regala una delle sue prove più plastiche, più naturali, più commuoventi.

E fa bene la regia di Poplizio a puntare soprattutto sulla resa interpretativa degli attori – tutti in abiti d’epoca e con occhiali anni ’60, tranne il vecchio compratore – ricercando una chiara distinzione tra la recitazione espressionista, a tratti quasi “cantata”, dei tre parenti e quella più dimessa e introspettiva di Orsini/Solomon. A tratti la declamazione “ronconiana” del testo sembra stridere con il linguaggio di Miller ma si capisce che a monte vi è una scelta ben precisa: forse l’idea stessa di far confliggere anche sul piano formale le tre “maschere” di casa Franz – tra l’altro fissandole in nevrosi giocoforza sopra le righe (l’arrendevolezza di Victor, l’avidità di Walter, l’infelicità di Esther) – con l’aria lunare e pacifica dell’intruso, ragionatore sì ma anche uomo estremamente pragmatico. Pronto a non darsi per vinto e a ricominciare ancora e sempre da capo. Avvolto nello splendido disegno luci di Pasquale Mari, dimentico delle ruspe che con fragorosa violenza (dato sonoro forse didascalico ed evitabile) demoliscono il palazzo, Solomon rimane da solo in scena e – siamo ormai all’epilogo – balla con passi lenti e sereni. Sembra possedere la grottesca malinconia di un fool shakespeariano; la levità pesante di uno Charlot arresosi alla fatalità del destino.