V. SORTE – R. FRANCABANDERA | E’ un panorama di montagna realizzato con dei teli di stoffa e adagiato su pile di scatole di cartone quello in cui prende vita la vicenda di Brigitte e Paula.

VS: L’adattamento di un romanzo per il teatro è sempre un’operazione difficile, soprattutto quando l’autore – in questo caso Elfriede Jelinek – è restio a qualsiasi trasposizione scenica dei suoi testi. Cosa ha convinto allora la scrittrice austriaca e Premio Nobel per la letteratura (nel 2004) ad accordare a Teatrino Giullare la rappresentazione di Le amanti? Forse la scelta di non affidare l’interpretazione dei suoi personaggi a degli attori.

RF: il contesto in cui il progetto è nato è noto e ne abbiamo parlato proprio nel periodo in cui il Focus Jelinek ha fatto conoscere meglio in Italia la scrittura di questa grande scrittrice austriaca, insignita nel 2004 del Nobel per la letteratura. Una scrittura, la sua, densa, contemporanea e capace di oscillare fra crudeltà e compassione. Nel Focus Jelinek sono state diverse le proposte di “rilettura teatrale” dell’opera della Jelinek. Ma questa di Teatrino Giullare è una che si è distinta per forza, potenza, e originalità, anche perché riprendeva di fatto un’idea che la Jelinek stessa ha dei suoi personaggi, quando dice, ad esempio, “Io ingrandisco (o riduco) le mie figure in una dimensione super-umana, ne faccio dei fantocci, visto che devono stare su una sorta di piedistallo”.

Teatrino-giullare_Le-Amanti_3 VS: In scena, infatti, in mezzo a teste, manichini e pupazzi, Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti sono le uniche due presenze in carne ed ossa, rispettivamente nella loro funzione di Narratrice/ Burattinaia e di Manovratore/ personificazione di Amore. Entrambi marionettisti visibili e ubiqui. Da qui la felice intuizione drammaturgica di lavorare sulla dissociazione tra corpo e voce tanto cara all’autrice e di farne la cifra dello spettacolo.

RF: Quello che accade è il rapporto fra una narratrice in carne ed ossa e un universo di figure per gran parte inanimate, con la prima che quasi presentatrice in questo mondo di cartone e carta pesta racconta  vicenda come una conduttrice di programmi televisivi di cronaca del sottobosco proletario, in cui affonda questa polifonia della miseria.

VS: Quella di Jelinek è già sulla carta una scrittura di voci. Voci dentro altri voci. Voci fuori dalla propria voce. Il proferimento differito della parola, ovvero questa scelta di non attribuire al personaggio che le ha generate, le proprie parole, oltre a escludere qualsiasi costruzione psicologica e a esteriorizzare/reificare qualsiasi intimità non fa che esacerbare questa idiosincrasia tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe, vorrebbe essere in cui ricadono come in loop i personaggi. Personaggi che si spostano in continuazione ma che non si muovono: destinati all’immobilità.

Giulia Dall’Ongaro entra ed esce continuamente da corpi-teste-voci-pensieri, rendendo i personaggi parlati e agiti – soprattutto Brigitte e Paula, le Amanti del titolo. Allontanati ed estromessi da se stessi. Il risultato è una realtà dipinta in modo ancora più duro e aspro, in un handicap emozionale e sentimentale. Un teatro espressionista insomma.

RF: Sono completamente d’accordo, si tratta di una ricerca dell’anima più profonda dei personaggi, dei caratteri, di tutti gli elementi costituenti  l’impalcatura narrativa che però in questa dimensione teatrale trova perfettamente casa.

VS: E questo non solo nella brutalità e Sachlichkeit dei rapporti umani, ma anche nei paesaggi. È qui infatti che Teatrino Giullare va a segno. La dissociazione operata tra corpo e voce è identica a quella che c’è tra la cornice di fiaba che apre e chiude lo spettacolo e l’ambientazione in cui si svolgono le vicende. Da una parte una scenografia idilliaca – anche se finta – fatta di cime innevate e macchie boschive, dall’altra lo squallore della fabbrica, della famiglia, e più in generale della comunità tradotti in una parete modulabile di scatole e scatoloni, sporchi e consumati, da cui escono mezzi busti e teste parlanti. Vite chiuse in scatola. Depositi di esistenze.

RF: Si tratta di un tuffo crudele che anche nella scrittura si dà, con la Jelinek che pare dire al lettore, e Giullare correttamente allo spettatore: “Attenzione alle panoramiche che allontanano dalla vita vera, dal fragile, dalle miserie, dall’umano. Persino la visione di una fragile bambola malmenata, se ben elaborata scenicamente, può indurre sofferenza.

VS: Allo stesso modo colpisce il contrasto tra la ruvidezza e incompiutezza delle due bambole, Brigitte e Paula, le sbavature del trucco e delle acconciature, vivaci e pallide allo stesso tempo, e il loro statuto inerte e inanimato. Manichini appunto.

Il lavoro di Teatrino Giullare ha molti punti di forza, ma la loro somma non corrisponde al risultato finale. In questa restituzione manca infatti qualcosa. Dalla visione cupa della vita e delle relazioni umane, da cui nessuno esce minimamente vincente, forse proprio una frattura fra Voce Narrante Interna e Narratrice hic et nunc, avrebbe potuto rendere la narrazione più concentrata sui nodi della vicenda, senza chiudere lo spettatore nella stessa scatola da cui anima i suoi personaggi.

RF: Qui il mio sentire è diverso. Proprio infatti la paranoica reclusione a cui lo spettatore è costretto lo porta a compatire così dolorosamente il destino dei due pupazzi di cartone. Certo, esistono punti in cui la narrazione flette e questo è finanche ragionevole nella conversione del testo da medium letterario a medium teatrale. Potevano essere fatte altre scelte sicuramente, ma nel complesso il lavoro ha una sua durissima, quasi filologica compattezza. E comunque è un esito originale e non facile. Che fa fare un nuovo passo avanti alla ricerca di Teatrino Giullare.