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ALESSIO DEGIORGIS | E’ plausibile che Alan Crosland, nel dirigere “The Jazz Singer”, non avesse piena consapevolezza della portata rivoluzionaria del suo lavoro. Correva il 1927 e gli studios hollywoodiani consolidavano la propria forza, anche in virtù dell’evoluzione tecnica che procedeva spedita, rinnovando nello spettatore l’ingenuo stupore delle prime proiezioni. Questa pellicola, che è stato possibile riapprezzare al festival Seeyousound (Torino, 25-28 febbraio) segna una forte cesura nella storia del cinema. D’ora in avanti, con il perfezionamento dei sistemi di sonoro ottico, il suono avrebbe reclamato uno spazio sempre maggiore, ampliando a dismisura le possibilità della rappresentazione filmica.

Il dialogo fecondo che continua a interessare cinema e musica accomuna idealmente le varie sezioni di Seeyousound. Buona parte dei film presentati, in questa seconda edizione, sembra soffermarsi sull’indagine di una dissonanza, lo scarto fra arte e vita, attraverso la decostruzione dell’elemento musicale (sia esso song, sinfonia o sommesso canticchiare) che passa dalla messinscena, talvolta dolorosa, dei corpi. Non mancano episodi dalla struttura classica e controllata, come il biopic (“Bloed, Zweet en Tranen” di Diederick Koopal, premiato dal pubblico) ispirato dalla vita di André Hazes, celebre cantante folk olandese di cui si racconta l’infelice parabola alcolica, o il documentario (“Miss Sharon Jones!” di Barbara Kopple, vincitore del festival) dedicato alla regina del soul-funk. La musica, in entrambi i casi, è opposta a immagini che narrano, con realismo toccante, fragilità insospettabili ma autentiche.

Laddove questa riflessione si radicalizza, è possibile osservare i risultati più originali. Estraneo al cordoglio obbligato che segue la scomparsa di una celebrità, “Low”, opera prima di Renaud Cojo, non è un semplice omaggio a David Bowie. Piuttosto, 45 minuti che scacciano la stanca formalità del necrologio, segnati dal rifiuto del tributo chiassoso, preoccupati solo di restituire vibrazioni e atmosfere. Berlino è desolata e spettrale, confinata in un autunno post-industriale visivamente abbozzato da un sapiente impiego del bianco e nero. La regia e il corpo stesso dell’attore sono attraversati e condotti dalla nervosa eleganza della traduzione sinfonica, firmata Philip Glass, della prima incursione in terra germanica del sottile Duca Bianco.

La mistica del rock e l’esasperato conflitto fra autodistruzione e bellezza si sostanziano, invece, nel lavoro della regista francese Paula Muret, “For this is my body”. Carl Barât (vizioso diarca dei The Libertines) si presta all’interpretazione di se stesso, in una prova d’attore convincente. Gli occhi ingenui di una groupie filtrano immagini cristologiche, il corpo della rockstar è oggetto di una sofferenza interlocutoria, da romanzo esistenzialista. L’eccellente colonna sonora (autore lo stesso Carl Barât) e il pregevole lavoro fotografico suppliscono con garbo all’intermittente debolezza della sceneggiatura.

Il cinema, non è un mistero, da decadi si offre come vetrina promozionale di musicisti e generi musicali diversissimi. See you sound ne ha riconosciuto l’importanza, inserendo in programma numerosi music video, premiando così un genere stimolato da recenti trasformazioni. Il declino del ricorso alla promozione televisiva, apre nuove possibilità creative che trovano ospitalità presso altri media. Si conserva, tuttavia, inossidabile il legame con l’estetica cinematografica, segnalato dall’insistito ricorso alla citazione. Vecchi e nuovi classici nel cinema, rivivono nelle creazioni di videoartisti provenienti da tutto il mondo, accomunati da un esperanto comprensibile ad ogni latitudine.

Suono e immagini sono riconosciuti, infine, come elementi di una rivoluzione che si spinge oltre la dimensione estetica, legandosi a una complessità alla quale appartengono lotte, speranze di rinnovamento, infelicità alle quali la Storia non ha dato risposta. La vicenda dei Quilapayún e il documentario che s’incarica di renderla nota (“Quilapayún, más allá de la canción” di Jorge Leiva) raccontano di come l’arte possa e debba essere strumento di resistenza irriducibile di fronte al silenzio e all’assenza di immagini che caratterizzano ogni controrivoluzione. Per puro caso scampati alla tragedia del golpe cileno, i Quilapayún conservano, nell’angustia del proprio esilio europeo, la fierezza di canti rivoluzionari di chi ha accarezzato Utopia e non ha rinunciato a immaginarla. Musica, parole, materiale d’archivio si fondono alla perfezione in un racconto corale intenso e prezioso.

Seeyousound sceglie di puntare su una proposta varia e originale, intelligente ed equilibrata. Dal music video al lungometraggio, ogni pellicola apre una finestra di riflessione feconda sulla relazione tra immagine e suo accompagnamento sonoro. Nel complesso, una testimonianza appassionata di quanto musica e cinema si rivelino linguaggi simbiotici destinati, con reciproco vantaggio, a influenzarsi ancora per lungo tempo.