VANIA-800x540VINCENZO SARDELLI | Le nebbie che cancellano ogni traccia di sogno. Personaggi che si lasciano scivolare dalla vita, senza un ideale che li trascini, una passione che li scaldi e li sottragga alla noia. Se è vero che s’invecchia quando il tempo dei ricordi prevale sul tempo dei progetti, una senilità tragica aleggia in Vania, dramma di Cechov che Stefano Cordella ha riscritto attualizzandolo, e che la compagnia Oyes ha portato allo Spazio Tertulliano di Milano.

Scenografia spoglia, una cornice di porta spalancata verso il buio, tre sedie allineate dalle fogge irrelate. Cordella dirige figure grigie nei costumi e nell’esistenza, vite al giro di boa. Ivan (Fabio Zulli) è in riflusso verso l’adolescenza, quando il Milan stellare di Massaro e Savicevic trionfava in Europa. Ivan ha consacrato la vita all’assistenza del fratello malato: per scelta o per rinuncia? Elena (Vanessa Korn), i biondi capelli raccolti, moglie troppo giovane per abdicare all’amore, comprime l’esuberanza dentro un dolore composto. Poi c’è Sonia (Francesca Gemma), ragazza fragile dall’umore ballerino e dall’autostima sotto i tacchi. C’è il dottor Astrov (Umberto Terruso), che continua per inerzia e affetto a curare l’amico malato in stato vegetativo. Infine c’è lui, “il Sergio”, il paziente. Non in carne e ossa, però. Ne percepiamo la presenza solo attraverso il respiro profondo e soffocato, più artificiale che umano. Ne avvertiamo l’odore di malattia, rigurgito d’aria stantia, presagio di morte imminente. Giace in un luogo inesistente, eppure è il motore della vicenda. Il suo letto è sostituito da un mixer, al cui tavolo, come a un capezzale, si alternano i protagonisti.

C’è un senso di putrefazione, la paura di morire, l’impossibilità d’amare. Soprattutto, l’incapacità di vivere. I sentimenti s’incrociano e sovrappongono, fino a calpestarsi. Tanto vale ubriacarsi. E sbirciare, dalla finestra, le vite degli altri. Un senso d’impotenza grava su un’umanità senza ideali né futuro. È un microcosmo. Ognuno sopravvive alla noia interiore e guarda al passato con indulgenza. Il futuro languisce dietro una coltre di ragnatele. Il desiderio di evadere, impersonato da Sonia, resta velleitario. Si parla del più e del meno. Anche ridere costa fatica, troppi muscoli coinvolti: rimane solo un intrico di rughe sul viso.

Come il coraggio di don Abbondio, la felicità uno non se la può dare. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Questi personaggi ricordano i cadaveri di Ungaretti. Gli episodici slanci vitali sono sussulti di corpi in deflagrazione.

Bravo Cordella a far dialogare la poetica decadente di Cechov con la nostra realtà di esseri senza presente, troppo vecchi per fiorire, troppo giovani per morire.

Vania è una sintesi di luoghi e visi consunti, come le note di Mad World di Gary Jules, splendidamente cantate dal vivo da Francesca Gemma. Vite senza nerbo stentano a guardarsi dentro. C’è un dinamismo struggente, come in Kozmic blues di Janis Joplin, che esalta la capacità di Vanessa Korn di liberare energia. Ma il gioco di bimba è preludio alla dissoluzione. Il punk finale di I wanna be sedated dei Ramones annulla, all’epilogo, il tipico immobilismo cecoviano.

Oyes realizza un lavoro convincente, buon compromesso fra lo spirito di un grande classico e le inquietudini della nostra epoca. La compagnia di scuola Filodrammatici procede con brio verso la maturità.

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