LAURA NOVELLI | Entra in scena con passo leggero, la voce sommessa, le movenze compassate. Ermanna Montanari, la “guerriera della voce” che ha dato anima a tanti sussulti sonori e fisici in spettacoli di forte intensità, ora ci appare quasi implosa. E tuttavia percorsa da una vitalità nuova, nascosta, potentemente pacifica. Lo spazio intorno è ampio e al contempo avvolgente: qualche sedia, dei libri, microfoni, quinte scure (in seguito variamente “abitate” da immagini video, proiezioni, scritte) e un gioco di luci chiaroscurale connotano l’avvio di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, lavoro firmato dal Teatro delle Albe (ideazione della stessa Montanari e di Marco Martinelli, anche regista) che, dopo il debutto nel 2014, è stato in cartellone all’Argentina di Roma nei giorni scorsi confermando la compagnia ravennate come una delle più coraggiose, raffinate, credibili, autentiche realtà teatrali della nostra Penisola. 2-Enrico Fedrigoli

Ermanna ne è ovviamente la protagonista (insieme con lei recitano Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu e Fagio, tutti molto bravi) e a lei spetta la prima, significativa, battuta: “E’ distante la Birmania? Eh? E’ distante?”. Una domanda da cui partire ma anche da rinnovare a più riprese lungo l’intero percorso di questo importante allestimento dove si ripercorre la vicenda pubblica e privata della pacifista birmana Premio Nobel per la Pace nel ’91. E la si ripercorre per segnare una “vicinanza” etica e ideologica che leghi Oriente e Occidente, loro e noi, ieri e oggi, la storia della Birmania a quella di ogni nazione, di ogni popolo. Motivo per cui, in tempi così ferocemente apatici, così vuoti di senso civico e impegno sociale come quelli attuali, il valore politico di questo spettacolo risuona come un monito prezioso. A partire proprio dalla drammaturgia che, basata su una ricerca documentaria accuratissima, è innervata da un chiaro riferimento stilistico al teatro brechtiano.

Diviso in diciotto quadri, i cui titoli vengono proiettati di volta in volta sul fondo della scena, il testo non solo contrappone la figura/simbolo di Aung San Suu Kyi a quella dei gerarchi “protagonisti” del dissennato ex-regime dittatoriale birmano, ma vi accosta pure un coro chiamato a sciogliere, in un recitativo salmodiante e melodico, i passaggi più critici, più delicati, più amari della vicenda. E questa procede per ricordi, per scelte, per snodi di azioni e pensieri, dove però trovano spazio anche documentari d’epoca, momenti cabarettistici di forte rottura, stratagemmi epicizzanti assai espliciti (quali, ad esempio, la comparsa di Brecht sulle note dell’Opera da tre soldi), tanto più efficaci perché accompagnati da una recitazione distaccata, didattica, a tratti persino da comizio.

Eppure questa linfa politica (o, per meglio dire, “polittica”) del lavoro risulta magistralmente controbilanciata da una minuziosa emotività intima, lirica, astratta, che emerge soprattutto nei monologhi di Ermanna/Aung San Suu Kyi, laddove l’attrice si offre al pubblico e al suo ruolo con la pacatezza di un lago ghiacciato in superficie e attraversato in profondità da correnti calde, pullulanti di energia. “In ogni vita – dice ad un certo punto – c’è un acquazzone: che bello…quando si riesce a prenderlo con umorismo!”. Ma – appunto – di umorismo acre si tratta, un misto di grottesco alla Mejerchol’d e di avvertimento del contrario pirandelliano: quasi una strada maestra che alleni alla meditata consapevolezza che, dopo ogni tempesta, ogni tortura, ogni prigionia (la vera Aung San Suu Kyi, come è noto, è stata per oltre vent’anni agli arresti domiciliari lontana da suo marito e dai suoi figli), ci sarà la luce.

Con questo umorismo lieve e tutto orientale, l’interprete ci accompagna attraverso il mondo rovesciato contro cui Aung San Suu Kyi si è battuta (esemplari in tal senso le scene dell’interrogatorio/sberleffo del primo quadro e quella dell’intervista con la giornalista di Vanity Fair), riservando a sé – e a noi – la sensazione di condurre, come attrice e come personaggio, una battaglia sempre e comunque non-belligerante, una resistenza al dolore mai violenta. La bellezza del lavoro sta tutta in questo fluido alternarsi di registro epico e registro lirico, e basta soffermarsi con attenzione sui discorsi in pubblico, sulle conversazioni con i fantasmi e gli spiriti, sulla scena in cui le giunge la notizia della morte del marito per averne conferma. Stavolta non è la voce a farsi corpo. Stavolta l’esercizio vocale della Montanari muta in un sospiro carnale che non smentisce l’eclettismo di una grande interprete delle nostre scene: “Ho inventato un allenamento per il mio corpo, quindici figurette ritagliate: infante / morta / chi cammina / chi pianta / chi balla / chi studia / chi ricama / chi ascolta musica / chi guarda il muro…”, si legge nel bel volume di Laura Mariani “Ermanna Montanari fare-disfare-rifare nel Teatro delle Albe” (titivillus edizioni) e anche qui Ermanna lo ha “poeticamente” applicato. Con, in più, la leggerezza di una piuma dell’Opera di Pechino capace di scuotere il mondo.
E allora la Birmania è davvero vicina: vibra nel cuore di chiunque sappia farsi carico di un ideale di Pace, di un’attitudine caparbia alla Pace. Cosa di più attuale – e teatrale – di questo?

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli

con Ermanna Montanari, Roberto Magnani
Alice Protto, Massimiliano Rassu

incursione scenica Fagio
musica Luigi Ceccarelli
spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Francesco Catacchio, Enrico Isola
montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde