hearing
Foto di Amir Hossein Shojaei

GIULIA RANDONE | Iran,  notte di Capodanno. Un ragazzo riesce a intrufolarsi in una residenza universitaria femminile, ma la trasgressione viene scoperta e denunciata. In realtà non è chiaro se l’evento da cui prende le mosse Hearing – ultimo lavoro del regista iraniano Amir Reza Koohestani e della sua compagnia Mehr Theatre Group – sia realmente accaduto o sia stato solo immaginato perché nessuno ha visto il presunto visitatore e la notizia si fonda su una voce di corridoio che riferisce di avere udito una voce maschile provenire dalla stanza di una ragazza. Una voce si è accavallata su un’altra voce.

Sulla scena deserta un rettangolo di luce imprigiona a turno due studentesse, che vengono sottoposte a un interrogatorio da parte della responsabile del dormitorio, una ragazza appena più grande di loro alla quale sono state affidate le chiavi della struttura. L’inquisitrice, seduta tra il pubblico, incalza verbalmente le ragazze alternando toni minacciosi e suadenti. Sameneh è imputata di avere scritto una lettera di denuncia nei confronti di Neda, la compagna che avrebbe fatto entrare il proprio ragazzo nel dormitorio con un sotterfugio per trascorrere insieme la festa di Capodanno. Insicura e impaurita, Sameneh nega di essere l’autrice della lettera ma confessa di avere effettivamente udito una voce maschile filtrare dalla porta della stanza di Neda e di avere riferito i suoi sospetti a un’altra studentessa. Neda viene convocata ma appare tranquilla e sicura di sé: respinge le calunnie e accusa Sameneh di essere ossessionata dallo sguardo dei ragazzi e dall’osservanza dei divieti e di essersi pertanto inventata tutto. Il confronto tra le tre donne si riavvolge su se stesso in un estenuante palleggio di discolpe e insinuazioni fino a quando le coordinate temporali si dilatano e la narrazione slitta in avanti di una decina d’anni.

Entra in scena un’attrice più adulta – che scopriamo essere Sameneh – e si rivolge a Neda, ora interpretata dall’attrice che prima interrogava le ragazze, per chiederle perdono. Sul sottofondo monotono di accuse e difese si innestano le prime variazioni, grazie alle quali apprendiamo che la denuncia di Sameneh – o meglio, la mancata difesa della compagna (che avrebbe potuto tentare ammettendo di essersi inventata tutto) – aveva avuto come effetto l’espulsione di Neda dal dormitorio. In seguito all’incidente, Neda era però riuscita a realizzare il suo sogno di emigrare e si era trasferita in Svezia, dove aveva proseguito gli studi e trovato un lavoretto come fattorina. Le due donne mature conversano sul filo del tempo, tra rimorsi e scelte che hanno marcato un punto di non ritorno: Sameneh è rimasta in Iran, dove ha messo su famiglia, mentre Neda, che pure aspettava un bambino, si è tolta la vita in Svezia dopo che la sua richiesta di asilo era stata rifiutata. La loro storia comune resterà per sempre amputata: ininfluente ormai per chiunque la risoluzione del mistero iniziale, impossibile oggi, per Sameneh, qualsiasi espiazione.

A dispetto del titolo, l’ossatura drammaturgica di Hearing – purtroppo meno complessa e perturbante di quella del precedente Timeloss – si regge sull’esplorazione del senso della vista. Nel nuovo lavoro di Koohestani lo sguardo è tematizzato in rapporto alle sue evidenti implicazioni politiche e al suo ruolo di strumento primo della composizione artistica. L’aspetto politico è evidente fin dalla comparsa delle attrici, abbigliate secondo l’uso imposto dal regime: abiti lunghi che coprono braccia e gambe e obbligo di indossare il velo islamico, quel hijab che porta inscritto nel suo stesso nome il compito di celare qualcosa allo sguardo di qualcuno. Per le ragazze iraniane di oggi il velo è un’imposizione relativamente recente e di cui poche condividono la necessità: le loro madri e nonne non lo portavano perché è stato reintrodotto solo nel 1980 in seguito alla Rivoluzione Islamica e le più giovani sono felici di disfarsene appena varcano i confini del paese, magari per ragioni di studio come nel caso di Neda. Ma per chi rimane in Iran la pena è severa: una donna sorpresa senza velo rischia da dieci giorni a due mesi di prigione e, se proprio le va bene, se la cava con una multa salata. Costretta alla discrezione e alla parziale invisibilità in patria, Neda scoprirà che, paradossalmente, per l’Europa il suo corpo è troppo poco visibile. Nel raccontare il proprio suicidio la donna accenna al motivo per cui la richiesta di asilo è stata respinta: le autorità svedesi pretendevano prove tangibili o filmate della sua opposizione al regime iraniano, ma il suo corpo non recava segni di ecchimosi né lei era in possesso di alcun video che testimoniasse il proprio dissenso. Seppure da una prospettiva geografica e sociopolitica radicalmente diversa, il corpo di Neda tornava sotto processo.

Se chi governa approfitta dello sguardo per esercitare il proprio potere coercitivo, in Hearing l’artista Koohestani mette invece in questione ogni pretesa di verità e chiarezza legata allo sguardo umano o a quello “aumentato” dalla tecnologia. Durante lo spettacolo le quattro interpreti entrano in possesso a turno di una GoPro, la popolare videocamera indossabile che da qualche anno viene utilizzata per filmare le proprie prodezze sportive o vacanziere e diffonderle attraverso i social. Ogni volta che una delle attrici indossa la GoPro non fa che proiettare in tempo reale sullo schermo che sostituisce il fondale il proprio sguardo. Ad esempio, quando le due giovani Sameneh e Neda escono di scena seguiamo il loro sguardo perdersi tra il corridoio del dormitorio in Iran e il foyer del Teatro Astra in cui si sta svolgendo lo spettacolo; quando una delle accusate rivolge lo sguardo in direzione della responsabile del dormitorio l’occhio della videocamera restituisce un’immagine confusa della platea in penombra, popolata di figure indistinguibili. Anche nel dialogo finale, in cui una Neda matura inquadra dalla platea la compagna di un tempo e ne proietta – questa volta con un effetto di moltiplicazione – la silhouette, abbiamo a che fare con uno sguardo che si perde e si confonde, sottraendosi all’illusione della giustezza e alla pretesa di giudizio.

Con Hearing Amir Reza Koohestani dimostra che l’artista può opporsi all’inquisizione dello sguardo, confondendo la vista e sovvertendo la pratica della rappresentazione. Ciò che la videocamera immortala non è particolarmente significante né utile a costruire alcun giudizio e l’immagine su cui si chiude lo spettacolo – un quadro di Shohreh Mehran che ritrae la conversazione tra due studentesse che (deliberatamente o meno) nascondono il volto all’osservatore – sembra annunciare una possibile libertà, lontano dalla voracità dello sguardo.

Scritto tra il 2014 e il 2015 in occasione di una residenza presso l’Akademie Schloss Solitude di Stuttgart, dopo una lunga tournée europea Hearing è approdato per la prima volta in Italia il 18 giugno di quest’anno all’interno del cartellone del Festival delle Colline Torinesi/Torino Creazione Contemporanea. Le prossime repliche dello spettacolo – le uniche in Italia – sono previste per il 15 e 16 luglio a Santarcangelo.

HEARING

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels

presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo
nell’ambito di Scene d’Europa