mad in Europe - foto manuela giusto

LAURA NOVELLI | E’ incinta. E’ un po’ folle. Lavora come funzionario al Parlamento Europeo di Strasburgo ma sembra essersene dimenticata. Cerca un senso alla sua vita nelle parole ma, guarda caso, proprio le parole le sfuggono, le lingue si confondono, l’inglese inciampa nel tedesco e questo nello spagnolo, nell’italiano, nel dialetto. La lucidità di visione si annebbia. Nessuno la comprende. Mentre cerca di parlare, le vengono conati di vomito, ha la nausea. Tutto sembrerebbe crollarle addosso. E persino il fatto di portare in sé una nuova esistenza non riesce a tradursi – apparentemente – in motivo di equilibrio.

La donna che Angela Dematté interpreta in Mad in Europe (di cui è anche autrice e regista) ha la forza di una straordinaria invenzione drammaturgica condotta su un doppio binario. L’identità della protagonista si sfalda, infatti, non solo mentre si sfalda il suo, e il nostro, essere europei (tanto più che le recenti vicende britanniche la dicono lunga a riguardo), ma mentre si sfilaccia anche il suo stesso statuto di personaggio: l’attrice entra e esce spesso dal ruolo, si rivolge direttamente al pubblico, ci parla del testo, della storia, dello spettacolo azionando un’epicizzazione metateatrale dai risvolti ironici che provoca nel pubblico la necessità di una lettura più profonda, più analitica e (auto)critica di quanto quel non-dire in realtà vada dicendo.

In scena c’è solo lei. Qualche sedia. Una statuina della Madonna di Lourdes dal mantello turchino che, poco a poco, diventerà icona da dissacrare, interlocutrice muta, simbolo di riappropriazione di un’identità autentica, ricostruita a furia di memorie infantili e familiari, rievocazioni religiose e matriarcali più forti – forse – di qualsiasi spirito europeista.

E allora questo interessante lavoro, premio Scenario 2015 e programmato qualche giorno fa nell’ambito del Kilowatt Festival di Sansepolcro, regala davvero uno sguardo arguto, sghembo, implacabile sul nostro oggi. E lo fa con la maestria di un artigianato teatrale davvero ammirevole (come ammirevole era d’altronde il precedente Avevo un bel pallone rosso, testo sulle Brigate Rosse aggiudicatosi il premio Riccione nel 2009 e messo in scena da Carmelo Rifici), all’interno del quale sembra di ritrovare qualcosa di Beckett, qualcosa di Brecht, e che personalmente mi ha riportato alla memoria il teatro di Martin Crimp e un’opera a me molto cara di Enda Walsh: quel magnifico Bedbound dove – appunto – una ragazza malata e suo padre compongono e decompongono la loro relazione e la loro realtà facendo della lingua (e, attraverso la lingua, del ricordo) il loro unico, micidiale,  sublime, intelligente vettore di (non)senso.

Scaturito dal progetto culturale A new narrative for Europe indetto dalla Commissione europea, al quale l’autrice ha partecipato seguendo gli incontri milanesi e scrivendo anche un contributo narrativo ispirato a Musil, il monologo della Dematté turba e insieme rassicura, inquieta ma poi, alla fine, quasi rasserena. Perché l’afasia babelica di cui soffre la protagonista si traduce sì in un grammelot semiserio squadernato e sbilenco, ma questo non-linguaggio non vuole demistificare l’utopia europeista postbellica. Il discorso semmai è qui più sottile, più prismatico. Sembrerebbe riguardare la ricerca di un’identità collettiva e individuale oggi compromessa da tante ambiguità e incertezze. Sembrerebbe ammonire i giovani ad uno sguardo aperto e globale ma, al contempo, visceralmente rivolto alla nostra terra, alle nostre radici culturali e nazionali. Sembrerebbe, insomma, inneggiare a quell’internazionalismo illuminato e fecondo che non può e non deve offuscare il senso di appartenenza ad una comunità primigenia. Chi tiene davvero il filo di questa bella storia è, dunque, proprio quel nascituro che non parla, che non dice, che non farnetica. Attraverso i tremori della madre avvertiamo i suoi tremori, la sua paura del presente e del futuro.

Motivo per cui non possono che essere i ricordi, il rassicurante raccontare della nonna, la chiesa frequentata da piccola, quella Madonna taciturna deturpata con segni di rossetto vivace, a contenere l’incontinenza linguistica di questa donna paradossalmente afasica. C’è un bisogno di autodefinirsi in lei, e un’unica strada per farlo: perdersi, confondersi, per poi ritrovare una luce, una pace.

Anche come attrice la Dematté – davvero bravissima – gioca su più fronti: l’immedesimazione con il personaggio, il registro straniante della narratrice, la leggerezza spiazzante dell’autoironia. La sua prova appare fluida, semplice e, insieme, surreale, grottesca, sovraesposta e il piglio energico, sia fisicamente sia vocalmente, che la attraversa innerva i passaggi più divertenti del testo così come quelli più lirici, più intimi, più drammatici, più pii. Forse si avverte qualche calo di ritmo in alcuni momenti ma nel complesso Mad in Europe è uno spettacolo maturo, nuovo, teatralissimo. Assolutamente da vedere.

 Mad in Europe

Uno spettacolo in lingua originale
di e con Angela Dematté
collaborazione drammaturgica Rosanna Dematté
scene e costumi Ilaria Ariemme
disegno luci e audio Marco Grisa
regia del gruppo Mad in Europe

Spettacolo vincitore del Premio Scenario 2015

Kilowatt Festival – 16 luglio,  Palazzo delle Laudi