mostraimg-phpNICOLA ARRIGONI | Si parte con la consueta lettura mentale, poi pian piano proseguendo nel leggere Farsi luogo di Marco Martinelli viene spontaneo leggere a voce altra, si dirà di più accentuare il ritmo e il suono di quei 101 movimenti che costituiscono una sorta di preghiera laica nei confronti di quella fede umanissima che è il teatro. E non è un caso che Martinelli scriva e professi: «il teatro come luogo Necessario, dell’Utile. Come un ago per cucire» e ancora «il teatro come luogo dell’Inutile, del Gratuito. Gratis et amore Dei. Come una preghiera». E proprio come una preghiera a tratti dolcissima, a volte incalzante, in certi momenti rabbiosa ed in altri quasi suggerita e intima si caratterizza l’elegia del fondatore del Teatro delle Albe, una sorta di poema su cosa è e possa essere il teatro; una professione d’amore per uno spazio che è luogo dell’anima e del corpo, ma anche il luogo dove recuperare la coralità.

farsi-luogoNel dire del pamphlet, pubblicato da Cue Press, non si può non estendere la riflessione sul significato del termine teatro, sul suo essere luogo, o meglio sul suo ‘farsi luogo’, perché c’è teatro laddove c’è l’Uomo e la sua voglia di mettersi in dialogo con l’altro, perché nel «farsi luogo non ci sono né padri né madri, ci si inventa ogni giorno come compagni: il tuo prossimo, in ebraico, è alla lettera il compagno, colui con cui dividere il pane, in latino. Si cresce e si invecchia tutti a bottega, nella palestra del lavoro quotidiano. Drammaturgia della scena, drammaturgia della vita». Il canto di Martinelli è un canto gravido di vita, pieno di speranza, una speranza agita nella scena e nella fatica giorno dopo giorno di vivere, di incontrare l’altro, in cui la con-fusione diventa «espressione dello straziante, magnificente mosaico del mondo». Nei 101 movimenti c’è spazio per la riflessione sull’essere attore, c’è spazio per il ruolo da riconquistare alla critica, c’è ovviamente spazio anche per lo spettatore casuale di cui il «farsi luogo ha bisogno, come dell’ossigeno, perché è il segno che la porta è aperta e può entrare chiunque, che si fa trascinare lì dal caso, dalla parola di un’amica, da un articolo di giornale».

11ee98fcover26421-jpegMarco Martinelli si fa aedo di un viaggio all’interno del senso antropologico del teatro, cuore della comunità. E’ un viaggio anche quello che propone Nicola Fano nel saggio Andare per teatri, pubblicato da Il Mulino. Si tratta di una panoramica storica e geografica che conduce i lettori alla scoperta dei teatri italiani più noti, in un ideale disegno di un paese della scena che si estende lungo lo stivale e nell’arco dei secoli. Il viaggio parte dal Teatro di Siracusa per passare al teatro Romano di Verona e cavalcando i secoli approdare fra Medioevo e Rinascimento al teatro Olimpico di Vicenza, piuttosto che il teatro all’antica di Sabbioneta e via via risalendo la china del tempo per arrivare al primo teatro all’italiana, La Pergola di Firenze e sulle suggestioni del melodramma scoprire le grandi sale dell’opera lirica dal San Carlo di Napoli alla Scala di Milano. Dai piccolissimi teatri della provincia italiana al teatrino di villa Torlonia, per passare alle sale del teatro popolare e di varietà si entra idealmente  nel salone Margherita di Napoli o nel Teatro Jovinelli di Roma. Andar per teatri per Nicola Fano vuol dire considerare la storia dei generi teatrali, i cambiamenti dello spazio scenico, il costume e le abitudini della società teatrale e soprattutto il punto di vista del pubblico pagante, cui dedica un divertito e sentito omaggio in apertura di volume nella consapevolezza che «il pubblico è qualcosa di più di un semplice ‘destinatario’ dell’arte teatrale: ne è il coprotagonista, e ne determina lo sviluppo». Ed in merito osserva: «spesso i teatri sono stati costruiti dagli attori per i loro spettatori. Ossia per far sì che il loro pubblico potesse assaporare il loro certo modo di fare teatro nelle migliori condizioni. Ogni grande stagione della storia della letteratura ha avuto i suoi teatri». E questa affermazione è tanto più vera e inquietante se si mette in relazione con il pamphlet, La fortezza vuota di Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini, pubblicato nel volume Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, curato da Clemente Tafuri e David Beronio.

massimiliano_civica_fortezza_vuotaMassimiliano Civica e Attilio Scarpellini firmano un duro j’accuse contro il teatro pubblico e commerciale di Stato che riceve finanziamenti per non adempiere a quello che dovrebbe essere il ruolo di servizio pubblico. Disattesa e del tutto ignorata è la funzione del teatro che dovrebbe essere «finanziato dallo Stato con lo scopo di portare ai cittadini spettacoli di alta qualità artistica e di intenso impatto emotivo; ovvero con lo scopo di ‘educare’ i cittadini attraverso l’Arte e il Bello», scrivono Civica e Scarpellini. In realtà – scrivono i due autori – : «Per lo Stato il teatro non ha più una funzione pubblica e, molti di noi, anche per cattiva coscienza del lavoro svolto, non contraddicono o non vogliono prendere nota di questa affermazione. Si va avanti come se nulla fosse, intenti a cucinare la cena, mentre la casa brucia». E il pamphlet di Civica e Scarpellini vuole destare le coscienze dire e dichiarare a chiare lettere che da parte del Ministero arriva una indicazione che non pone dubbi: «il teatro deve diventare un’azienda in espansione, che assume nuovo personale, offre prodotti di largo consumo e aumenta le giornate lavorative», fatto salvo poi che i finanziamenti arrivano solo in caso di bilancio negativo… I due ‘polemisti’ mettono in evidenza le contraddizioni del sistema ministeriale, lo strapotere dei direttori artistici, i giochi delle connivenze e convenienze reciproche che legano artisti (raramente), macchina organizzativa dei grandi teatri (più frequentemente). Non meno forte è la denuncia di un teatro della gratuità, della passione e del narcisismo irrisolto che coinvolge artisti, giornalisti, operatori culturali e spesso ha come vittima sacrificale il pubblico, quello vero e non quello di addetti ai lavori di festival, rassegne innovative che finiscono col sembrare ritrovi carbonari… e dopotutto i fondi ministeriali servono per pagare gli stipendi di chi lavora nei teatri stabili o nelle istituzioni ministerialmente riconosciute e solo il 30 per cento di questi fondi viene utilizzato per le produzioni artistiche. Dati di fatto questi che ne La fortezza vuota vengono raccontati ed esposti con vis polemica e forte trasporto poetico che alla fine fa scrivere con indefessa fiducia: «per uscire dalla fortezza vuota il teatro deve diventare quello che finora non è stato se non in potenza: un soggetto. Non un equivoco soggetto politica, pronto a servire questa o quella causa (e, di nuovo, questo o quel potere). Ma un soggetto poetico che nell’autonomia del suo fare ritrova il senso e le ragioni del suo essere – e del suo irriducibile essere sociale». E da chi attendere tutto ciò? Si chiedono i due autori utilizzando come risposta le parole interroganti di Jacques Coupeau: «E da chi altri si può attendere, un simile sforzo se non da coloro che vi mettono in gioco l’intera vita?».

Marco Martinelli, Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti, CuePress.

Nicola Fano, Andare per teatri, Il Mulino, Bologna.

Clemente Tafuri e Davide Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, Akropolis Libri, Genova.

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