15965613_10154073956456990_8829593980248549719_nANDREA CIOMMIENTO | La nuova stagione del CSS di Udine propone un anno di firme prestigiose della scena italiana e straniera. Tra queste Christiane Jatahy, già “maestra” dell’Ecole des Maitres 2016, il laboratorio europeo d’alta formazione con le prime sessioni in Friuli, e ora presente con il suo spettacolo “E se andassimo a Mosca?”, l’adattamento tra teatro e cinema in tempo reale a partire dalle “Tre sorelle” di Cechov.

Il dispositivo narrativo è semplice. All’entrata il pubblico si divide in due sale diverse: una sala teatrale con le attrici e gli operatori video che saranno anche attori secondari della storia, e una sala cinematografica con uno schermo per la proiezione e un montaggio “live” su ciò che accade nello spazio confinante. Il risultato è una doppia esperienza per lo spettatore che farà visione immediata di una e dell’altra costruzione in due repliche consecutive: prima il teatro poi il il cinema, e viceversa.

Qualcuno potrebbe definire l’allestimento una “buona operazione comunicativa” spoglia di contenuto drammaturgico e interpretativo. In altre esperienze ibride il risultato è questo: tanto processo tecnologico e poca sostanza. Ma qui, oltre all’ingranaggio, si conferma anche una ricerca legata alla scrittura per la scena e all’impronta recitativa delle attrici. Qui i codici del teatro sono consacrati, non destrutturati, si conferma la tradizione di un’arte antica come il teatro, di frequente messa al confino e accusato di anacronismo, dove l’architettura drammaturgica è al servizio della storia e delle attrici, con azioni, battute e reazioni organiche non forzatamente declamate. Le attrici sono bravissime, stanno con lo spettatore, non lo perdono di vista, ne percepiscono gli umori e le attenzioni. Se ne prendono cura dall’inizio alla fine.

Al contempo potremmo riflettere su come il linguaggio cinematografico si rinnovi grazie al linguaggio del teatro immediato, presente e reale, fatto di imprevisti che innalzano la concentrazione e il rischio della “diretta”. Aspetti che il cinema storicamente non affronta, chiuso nelle sue riprese da ripetere all’infinito e ai suoi montaggi da definire. Qui tutto si converte davanti agli occhi, marcando visibilmente lo specchio finzionale e il suo attraversamento.

15977119_10154075810506990_6519712421041540143_nLe tre sorelle si chiedono “cosa dovrebbero cambiare per riuscire a vivere, davvero”, senza il bisogno di “vivere due volte, la prima in brutta copia e la seconda in bella”. Il mondo reale e finzionale si uniscono, davanti alle scelte da compiere “sempre sul bordo della piscina, prima del lancio”. E’ la questione che Peter Brook traduce in una chiave simile, ribadendo la vocazione del teatro a rimanere “presente al presente”.

Da diverso tempo la scena contemporanea straniera si sta orientando verso la narrazione dei fatti, raccontando il proprio punto di vista sulle opere, senza enfatizzare solamente l’arte dell’attore e l’elogio autoreferenziale di un progetto registico. Nel 2016 un altro maestro contemporaneo, Thomas Ostermeier, porta in scena “Il Gabbiano” con una rivisitazione contemporanea e la stessa qualità drammaturgica e interpretativa di questo adattamento delle “Tre sorelle”. Nel lavoro di Ostermeier non è presente il cinema ma si può riconoscere una stessa sensibilità legata alle domande che portano oggi gli artisti ad affrontare l’opera cecoviana. Come Ostermeier anche Jatahy concentra la propria attenzione non solo sull’opera ma anche sull’impegno sociale di Cechov con il racconto sotteso di un mondo che da lì a poco sarebbe cambiato.

Non solo nel “Gabbiano”, ma in tutta la sua opera, come le “Tre sorelle”, lo scrittore russo racconta infatti il declino di una classe che non sa vivere il proprio presente, confinandosi in grandi proprietà circondate da laghi e giardini bianchi, mentre fuori il mondo infiamma. I protagonisti cecoviani si perdono nei loro piccoli interessi, tra sentimenti d’amore e smanie di successo, rappresentanti di una classe annoiata che nega l’ascolto del contesto storico presente. “Moscow” si conferma uno spettacolo alla ricerca di un senso: il senso del teatro oggi, il senso del cinema in una chiave inedita e rinnovata.