LAURA NOVELLI | Ci tira dentro la sua storia immediatamente perché immediatamente ci sentiamo agganciati al suo parlare, alle sue grida, ai suoi silenzi, al suo sguardo vigile e mosso, al suo stare lì: sospesa su una panchina che a sua volta sembra appesa in alto, incastonata in una parete al centro del palcoscenico. Quasi a metà tra cielo e terra, vita e morte, presente e passato. Le scarpe di lato, l’abito verde smeraldo da signora bene, l’aspetto trafelato, inquieto, ansioso.

Milvia Marigliano_Ombretta Calco

Lei ci tira dentro il suo mondo e noi non possiamo fare altro che andarle dietro, che seguire il suo pensiero, abitare gli sbalzi continui della sua memoria, viaggiare avanti e indietro nel tempo, soffrire e ridere con lei, sintonizzarci sul suo dialetto milanese ora diretto, energico, possente, ironico, ora invece lirico, pietoso, quasi salmodiante. Ombretta Calco di Sergio Pierattini (in scena al Piccolo Eliseo di Roma nei giorni scorsi) è un monologo di straordinaria forza teatrale e Milvia Marigliano, unica interprete nel personaggio del titolo, è semplicemente splendida.

E se già l’incontro tra la scrittura del drammaturgo e la versatilità dell’attrice innesca qui una magica corrispondenza d’intenti e di emozioni, non di meno la limpida regia di Peppino Mazzotta intercetta con estrema sensibilità queste due “lingue” vive, per regalarci uno spettacolo davvero importante. Ombretta è una donna come tante. Un lavoro d’ufficio. Un matrimonio finito male alle spalle. Altre storie d’amore sbagliate. Forse è Michele quello giusto. Nessun figlio. Un fratello eternamente bambino che ora – siamo alle prime battute – la chiama al telefono per comunicarle che la madre (con cui ella convive) è caduta nel cortile di casa mentre rientrava dal supermercato con la badante e che si trova ricoverata in ospedale.

Ombretta parla da lì. Da quella panchina stilizzata e issata a mezz’asta che, con il suo piccolo ulivo vicino e il cinguettare degli uccelli udibile a sipario ancora chiuso, rimanda l’idea di un parco, pur sembrando in realtà una scatola/tomba. Un luogo-non-luogo da cui guardare la propria vita, da cui vivisezionare i propri errori, le proprie traiettorie di fuga, le proprie verità, conquiste o fallimenti che siano. La pièce – lo spiega l’autore stesso nelle sue note – è nata da un episodio autobiografico legato all’incontro con una donna seduta, in pieno luglio, su una panchina di Piazza Maciachini, a Milano: “[…] Quando fui a pochi metri da lei rimasi colpito dal colorito pallido del suo viso e dalla posizione del capo, immobile e leggermente reclinato all’indietro. Pensai che stesse dormendo ma avvicinandomi alla panchina notai che aveva gli occhi aperti e che respirava faticosamente […]”.

Ombretta arriva da quell’immagine. E’ ferma, eppure mobile. La sentiamo urlare al telefono con il fratello, poi la vediamo correre in ospedale: la madre è in coma. I sensi di colpa la assalgono. Proprio quel giorno aveva deciso di tornare a casa a piedi e aveva fatto tardi. Proprio quel giorno si era seduta su una panchina per qualche minuto di refrigerio dallo stress quotidiano. La stessa panchina sulla quale anni prima il marito l’aveva lasciata dopo una serata a teatro. Si erano fermati lì dopo aver visto la “storia di un principe rinchiuso in una torre che confonde sogno e realtà” al Piccolo (chiaro riferimento a La vita è sogno di Calderón de La Barca). Faceva freddo. Poi eccola di nuovo al presente. Si consulta con i medici. Se la prende con il fratello, con il suo abbigliamento scomposto da sportivo dell’ultima ora. Ricorda il padre. Ogni tanto ha ancora l’energia per qualche virata ironica mentre, sempre più sconvolta, prosegue la carrellata di ricordi, nomi, pezzi di vita: Michele, l’ultimo amore. Il progetto di una convivenza. E certo avrebbe dovuto mandare via la madre, ma tutto si sarebbe aggiustato. Invece la madre non c’è più.

Ad un certo punto, però, la luce cala, l’atmosfera diventa più tragica (ottima la scelta registica di accondiscendere così lievemente gli scarti di tono del testo e della recitazione) e quella panchina allude al luogo di un’altra storia (la sua), di un’altra morte (la sua), di un altro malore (il suo). E allora capiamo che Ombretta ha forse parlato sempre dall’aldilà, da un altrove assai poco terreno. La scrittura di Pierattini ce lo svela poco a poco, procedendo per onde emotive che attraversano situazioni e tempi diversi e al contempo soffermandosi su piccole e minuziose annotazioni ordinarie. Mi viene subito in mente che quel luogo somiglia alla sedia di Dondolo di Beckett e quel piccolo ulivo all’albero di Estragone e Vladimiro. Mi viene in mente pure un bel testo di Jan Fosse, Inverno, in cui le passioni finiscono e sbocciano proprio in un parco, sopra una panchina: ci si lascia, ci si ama. Ma forse nulla accade realmente. Proprio come in Calderón, del resto. E mi viene in mente La Maria Zanella, capolavoro dello stesso Pierattini (2001) in cui Maria Paiato stava seduta su una sedia a raccontare la sua follia e la sua tragedia. Certamente, rispetto a questo personaggio, Ombretta è una donna con un’inquietudine più comune, ma la sua forza drammatica è enorme. E la Marigliano sa darle una vitalità teatrale davvero rara. Impossibile dimenticarla.


Ombretta Calco

di Sergio Pierattini

con Milvia Marigliano

regia Peppino Mazzotta

scene Roberto Crea

costumi Rita Zangari

scenotecnica Angelo Gallo

una produzione Rossosimona in collaborazione con Officine Vonnegut

Teatro Piccolo Eliseo – 24 maggio/4 giugno