ILENA AMBROSIO | Rielaborazione scenica di una delle favole della raccolta seicentesca Lo cunto de li cunti del napoletano Giambattista Basile, La Scortecata narra la storia di due bruttissime e vecchissime sorelle che ingannano un giovane re, mostrandogli dal buco di una serratura un dito reso liscio da lungo esercizio di succhiamento e convincendolo, dunque, a dormire con una di loro. Ma dopo l’amplesso, accorgendosi di essere stato ingannato, il re getta la donna da una finestra. La vecchia non muore, resta appesa a un albero e incontra una fata che, con un incantesimo, la rende bellissima e giovane così che il re la prende per moglie.

Questa la storia. A rappresentarla una scena assolutamente essenziale, come è tipico della Dante: due “seggiulelle” per fare il “vascio” dove vivono le donne; una porta che resta invisibile allo spettatore finché non viene sollevata per la scena del gabbo; al centro la miniatura di un castello disneyano, ironico rimando alle tradizionali fiabe di principi e principesse. Altri, pochi, oggetti di scena, saranno presi in itinere da un baule posto sul fondo.

A interpretare le vecchie, due uomini: camicia da notte e gambaletti al ginocchio, il tipico abbigliamento della “libertà” casalinga.
Ma i due interpreti sono, anche, a turno, il re e poi la fata. La struttura drammaturgica è, perciò, perfettamente aderente a quella dell’opera di riferimento: una cornice, qui quella delle due vecchie che trascorrono il tempo raccontandosi una fiaba, all’interno della quale c’è un racconto, quello, appunto, della vicenda che le coinvolge insieme al re. Il teatro, dal canto suo, aggiunge un ulteriore livello che è quello della finzione scenica, finzione che, per di più, include un’opera altra: una sorta di matrioska meta-letteraria il cui incastro risulta perfettamente lineare e fluido.

È chiaro che un lavoro di questo genere punti moltissimo sulla parola, latitante negli ultimi lavori della Dante fino alla totale assenza di Bestie di scena. Un recupero filologico del napoletano di Basile, come nella descrizione della bruttezza delle due vecchie, si alterna, per necessità di comprensione, a un lessico più moderno che, tuttavia, lascia intatto il colore di una lingua sulla quale si basa buona parte dell’effetto complessivo dello spettacolo.

Foto Franco Lannino

L’altra parte la fanno movimento e gestualità. Se l’intera vicenda ruota intorno alla beffa ai danni del re, cardinale è, allora, l’atto di suggere il dito, l’«esercizio» ripetuto continuamente dalle sorelle per renderlo il più liscio possibile. Ma l’intero spettacolo vede i due interpreti in continuo movimento – sorprendente la scena della porta – abilissimi nel coinvolgere il proprio corpo pur mantenendo costantemente la posizione curva della vecchiaia, perché costantemente si ricordi ciò che davvero stanno impersonando.

E sta qui la crucialità del lavoro. La scelta di interpreti uomini è dichiaratamente finalizzata a mettere in scena non due vecchie ma la vecchiaia stessa. Nella favola di Basile il finale vede la sorella rimasta anziana chiedere a un barbiere di «scortecarla», di modo che, tolta la pelle vecchia, esca fuori quella nuova. La morale sarà, allora, l’assurda vanità delle donne, disposte a tutto pur di apparire ancora belle e giovani. Già moderno e lungimirante, Basile. Ma la Dante aggiunge a questo una sfumatura ben più drammatica e moderna. Ciò che nelle sue mani diventa la favola è il tragico racconto della solitudine e della disperazione – assenza di speranza – cui costringe la vecchiaia. La sorella prescelta dal re assume uno spessore emotivo assente in Basile, vede in lui la sua «ultima occasione» , ne è «innamorata», si sente «rifiorire». L’aspirazione alla giovinezza non è semplice vanità ma desiderio, anche fisico – eloquente l’atto di succhiare il dito – di risentirsi vivi.

Ma la condizione umana destina a ben altro. Dopo la scena del matrimonio: «Basta cu’ ‘sta commedia»; l’incantesimo si spezza, il racconto nel racconto si smonta, resta solo la cornice, quella delle due sorelle, della sofferenza, insopportabile per una di loro, della vecchiaia: «‘i nun ce crer cchiù nelle favole, me so stancat’ ‘e essere vecchia». La richiesta estrema, allora, la farà proprio a sua sorella l’affetto della quale, improvvisamente esplicitato, è impotente di fronte alla sua disperata richiesta.

e cammina o vicchiariello sotta ‘a luna
quante vote s’è fermato pe’ parlà cu qualcheruno
e nun c’è sta mai nisciuno che se ferma po’ sentì

Le note di una canzone di Pino Daniele accompagnano le due sul fondo della scena, l’una ricurva, l’altra con il braccio sollevato brandendo un pugnale. Una figura suggestiva che sa della plasticità di certe statue greche e che illumina retrospettivamente, con il suo senso, l’intero spettacolo.

Ciò che ha fatto Emma Dante è stato recuperare un’opera del passato, istaurare con essa un dialogo, un rapporto intimo, ascoltare, nonostante la distanza temporale, ciò che ha ancora da dire, reinterpretandolo e rendendolo fruibile. Un’operazione certamente riuscita tanto più affascinate proprio perché si svela in toto solo nel finale, un epilogo che getta un velo di profonda tragicità su uno spettacolo che, solo apparentemente, era sembrato comico.

 

LA SCORTECATA
liberamente tratto da lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile

testo e regia Emma Dante
con  Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistente alla regia Manuel Capraro 
produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
Festival di Spoleto
6-13 luglio 2017