FRANCESCA DI FAZIO | Una casa di vetro in cui consumare una tragedia familiare, un edificio prototipo Ikea in cui il senso di umanità si affoga nei silenzi, si perde nei vizi, va in fumo insieme al legno delle pareti. Simon Stone approda al festival di Avignone con uno spettacolo di una sconvolgente tragicità che riesce ad ammutolire il pubblico fino a farlo uscire in completo silenzio al termine delle quattro ore di rappresentazione.
Nella corte del Liceo Saint-Joseph di Avignone è stata allestita una struttura in legno dalle grandi vetrate che lasciano intravedere l’interno di una casa di villeggiatura del nord Europa: una cucina adiacente al piccolo salotto, la camera dei ragazzi al piano terra e quella dei genitori al piano di sopra, col soffitto a mansarda.

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Ogni stanza è offerta allo sguardo del pubblico ed ogni scena si svolge in una stanza diversa o sui gradini esterni della casa, in un succedersi di focalizzazioni personaggi-luoghi che ricorda il montaggio cinematografico, sensazione aumentata dalla piattaforma girevole su cui posa la casa, che ruota incessantemente da un cambio di scena all’altra permettendo all’azione di esistere in un continuum e di saltare fluidamente nei diversi periodi in cui si svolge la saga familiare. La presenza costante e fondamentale sulla scena della casa la fa assurgere al rango di personaggio: essa è il luogo centrale, il centro nutritivo delle storie dei tanti componenti della famiglia, di essa vediamo gli sviluppi nel tempo, da casa ammobiliata e abitata a rudere di cui seguiamo la ristrutturazione, fino a luogo vuoto, prigione priva di speranza che viene infine data alle fiamme. Una sorta di rappresentazione mentale e perturbante che si fa testimone dei conflitti e dei traumi che si sono susseguiti in seno alla famiglia.

Il titolo della pièce – Ibsen Huis (“Casa Ibsen”) – si rifà in modo diretto all’autore di cui Stone riprende alcuni temi, intrighi e dilemmi morali per trasporli in un presente di cui si indagano le problematiche, le paure e le responsabilità, singole e collettive ad un tempo. Le fonti ibseniane sono utilizzate come atmosfere e donano il cupo tono morale allo spettacolo. La pièce segue dei fili, delle storie tratte dai testi del drammaturgo norvegese senza rifarvisi in senso letterale. Essa narra del perpetrarsi di abusi, psicologici e fisici, tra una generazione e quella successiva, dell’omertà accordata al pater familias e alle sue perversioni da tutti gli altri membri, dell’impossibilità al dialogo, dell’obbligo al silenzio. Nonostante il tempo che passa e le generazioni che si succedono, la famiglia resta prigioniera del proprio sistema e delle sue disfunzioni, in una lotta senza fine dei personaggi contro un destino deteriorato. Stone, fervido lettore dei classici e già regista del Tieste di Seneca, sembra riprendere qui il tema della colpa dei pardi che ricade inevitabilmente sui figli, lasciandoli prigionieri in una gabbia di vetro. Una vera e propria tragedia, trasposta nell’epoca triste del contemporaneo.

Eppure, una tenue parvenza di riscatto sembra essere suggerita come possibile in un appello alla responsabilità che Stone sfiora e raccoglie nel personaggio di Christine, nipote di Cees Kerkman, il padre di famiglia che per anni ha abusato di lei quand’era solo una ragazzina. La sua vita sregolata, segnata da dipendenze e da tratti borderline, subisce un cambiamento di rotta grazie alla sua volontà di mettervi ordine. Trova un compagno che la ama, smette di bere, cerca di riallacciare i rapporti con tutta la famiglia. Che tuttavia la respinge, il giorno del funerale di Cees, quando lei cerca di svelare la verità e rimettere ogni cosa al giusto posto. È lei che, dopo un primo rogo appiccato alla casa dai suoi zii, ne cura la ristrutturazione e idea il progetto di metterla a disposizione dei rifugiati. Progetto a cui viene data una battuta d’arresto dal sindaco e da tutta la giunta comunale, preoccupati dalla minaccia alla sicurezza che una tale immigrazione potrebbe portare. Christine cerca di far valere la sua voce in un forte monologo in cui risalta una volontà di giustizia e redenzione non solo per la propria esistenza ma per la società tutta o quantomeno per le sue vittime. «I mostri siamo noi, i mostri sono nelle nostre case», grida.

Di fronte a un mondo – familiare e sociale – che risulta sempre più sfilacciato, incomprensibile e sconvolto, la tragedia di Ibsen Huis non dipinge un male fine a sé stesso ma costituisce una chiamata alla responsabilità, alla presa di coscienza sul fatto che le proprie scelte hanno delle conseguenze non solo su ogni intima storia ma anche sulla collettività umana. Bisogna essere attenti, bisogna lottare. Christine dà la casa alle fiamme per l’ultima volta. Tabula rasa, purificazione. «Un pensiero che mi dà sollievo è quello di una futura vita che nascerà su queste terre». Una catarsi che scava un solco interno ad ogni spettatore, un solco da riempire con un nuovo seme per nuovi germogli di buone messi. Un tentativo di superamento di quel destino che nella tragedia antica sembrava così necessario e infrangibile.

Testo e regia Simon Stone
Drammaturgia e traduzione Peter van Kraaij
Musiche Stefan Gregory
Scenografia Lizzie Clachan
Luci James Farncombe
Costumi An D’Huys
Assistente alla regia Nina de la Parra
Con Claire Bender, Janni Goslinga, Aus Greidanus jr., Maarten Heijmans, Eva Heijnen, Hans Kesting, Bart Klever, Maria Kraakman, Celia Nufaar, David Roos, Bart Slegers

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