ANDREA CIOMMIENTO | L’Arena del Sole di Bologna ha ospitato a gennaio “Atlas des Kommunismus” di Lola Arias, la regista argentina conosciuta nel mondo per le sue creazioni partecipative grazie al lavoro con “persone reali” e non attori professionisti. È la prima volta che arriva in un teatro italiano anche se nelle sale cinematografiche abbiamo sentito pronunciare il suo nome nel film “The Square”, vincitore della Palma d’Oro 2017 a Cannes e da poco nominato agli Oscar 2018 come Miglior Film Straniero.

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All’interno del film si parla appunto di un’opera d’arte partecipata, The Square, in cui il pubblico diviene parte stessa dell’opera. La storia affronta diversi aspetti tra cui la spinosa questione dell’arte relazionale in cui l’opera si può comporre organicamente solamente grazie alla partecipazione attiva del pubblico/creatore/fruitore. Scriviamo “spinosa” perché proprio in questi ultimi anni, dalla politica al sociale fino alla cultura, sta avvenendo un cambio epocale. In estrema sintesi, sembra che il mondo non voglia più “solo rappresentanti esperti” ma desideri un legame sempre più diretto con la materia fruita: esistono oramai diciture scandagliate in ogni contesto, come “audience engagement”, “welfare community” e “prosumer” in cui le stesse persone contribuiscono alla produzione e consumo di contenuti e servizi. Nel film si attribuisce l’autorialità di quest’opera a Lola Arias (definita nel film artista e sociologa) anche se in realtà lei non ha mai realizzato The Square.

In una intervista al giornale argentino Clarín dichiara:

“Il regista del film, Ruben Östlund, mi conosce, abbiamo un amico comune che è un artista svedese. Conosce il mio lavoro, sa che lavoro con persone reali. La cosa più ridicola è che Östlund attribuisce l’opera a me, quando in realtà è un’opera che ha fatto lui, in un’altra città, e mi menziona come se fossi io l’autore. La gente mi chiama chiedendomi se ho fatto io l’opera The Square… In realtà questa è la storia di una mia partecipazione fallita nel film che ha avuto un esito mondiale”.

Una fallita partecipazione, dal momento che Lola Arias doveva prendere parte al film con una scena realizzata via “skype” e in seguito cancellata nel montaggio. Questa introduzione può aiutarci a comprendere tutto ciò che si muove attorno al nome dell’artista argentina e allo spettacolo “Atlas des Kommunismus” ospite a Bologna lo scorso fine settimana.

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Gli elementi ci sono tutti: una storia che accomuna le persone in scena, attori non professionisti chiamati a condividere le proprie biografie sul palco, l’utilizzo di nuove tecnologie come il “video live stream”, la messa in discussione dell’arte dell’attore (che potremmo ridefinire “arte dello spettatore”). Lo spettacolo è prodotto dal Maxim Gorki Theater (Berlino) e racconta i sogni e le infinite derive del “comunismo” attraverso le biografie di alcuni cittadini berlinesi. È una confessione intergenerazionale: c’è una ragazzina di dieci anni che non se sa nulla e che si ritrova tra i racconti di un mondo che ha vissuto un “pianeta rosso” a lei sconosciuto; un’anziana donna ex collaboratrice della Stasi; un giovane trentenne del mondo LGBT chiamato a vivere la sua omosessualità tra il mondo prima e dopo il Muro; una militante dei Movimenti Femministi incarcerata per aver fatto parte di gruppi punk, un’attrice del Gorki Theater nella veste di testimone di un teatro della Berlino Est, e altre persone insieme dall’inizio alla fine.

C’è un palco a pianta centrale con doppi spalti per il pubblico e le due ore di spettacolo passano veloci come una condivisione intima e pubblica di un mondo scomparso in cui si veniva svegliati con musiche militari e “buongiorno compagni”. I loro racconti si trasformano in fatti da rivivere attraverso dialoghi e pezzi musicali cantati nelle vesti di band musicali: “Era più importante come si portava la camicia della Libera gioventù tedesca, non aperta e non con le maniche arrotolate, rispetto a quanto ci si impegnava”. Le microstorie delle persone si fermeranno solo davanti alla rievocazione dell’annuncio mondiale in cui verrà comunicata la Caduta del Muro:

“Il consiglio dei ministri ha deciso che tale regolamento transitorio resterà in vigore finché il parlamento non emanerà una legge in merito. Si può varcare in qualsiasi momento il confine, in corrispondenza di tuti i punti di attraversamento della DDR verso la RFT e verso Berlino Ovest.”

Si raschiano i ricordi tra immagini di ombrelli rossi con la scritta di una marca di sigarette (WEST) e la profonda depressione dei sogni ideologici di un intero secolo. Ci sono le macerie, le oppressioni politiche e le paranoie statali, c’è infine l’ammissione di colpa di questo “atlante del comunismo” finito alla deriva e in un vicolo cieco.

Lo spettacolo si conclude parlando di sé attraverso la voce degli interpreti:

“È la regista che ha inventato il titolo. Sai, lei viene dall’Argentina. Per noi comunisti, il comunismo era un altissimo obiettivo per il futuro. Non penso sia corretto questo titolo. Il nostro socialismo doveva essere la via verso il comunismo, il suo stadio preliminare. Da noi vigeva il principio della meritocrazia nella società: ciascuno dà ciò che può e riceve di conseguenza. Questo non si è mai realizzato. Da questo punto di vista Marx, Engels, Lenin non avevano forse cartografato così male il comunismo… O meglio illustrato a livello teorico. Il problema dell’Est fu solo che alcune teste dure hanno strappato questa carta da sotto le unghie. E hanno sostenuto che solo loro e nessun altro conoscevano l’unica strada giusta”

L’intero allestimento si potrebbe anche definire “serata/evento” o “festa comunitaria” che porta il pregio di operazioni artistiche simili a quelle dei format 100% Cities dei Rimini Protokoll (Berlino). Il pregio di non costringere il pubblico ad atmosfere di “apnea” dove le luci si spengono e il teatro prende il sopravvento su tutto, lasciandoci al buio per illuminare solo se stesso e il successo interpretativo degli attori professionisti. Qui la condivisione è completa: gli interpreti sono potenziali spettatori che prendono la Bastiglia e ci raccontano la loro versione dei fatti senza attori professionisti (“mediatori-esperti dell’arte del racconto”).

E’ sempre più dichiarato oramai l’interesse da parte di pubblici, festival e teatri di mezza Europa: comprendere ciò che è reale all’interno di meccanismi finzionali. In altre parole: condensare la vera vita sul palco. E in questo spettacolo è interessante riconoscere la conversione produttiva del Maxim Gorki Theatre, da teatro comunale della ex DDR a teatro capace di produrre una visione inedita della propria biografia nata nel “pianeta rosso” e atterrata nel “pianeta della nuova spettacolarità”.

ATLAS DES KOMMUNISMUS
regia Lola Arias
con Salomea Genin, Monika Zimmering, Ruth Reinecke, Mai-Phuong Kollath, Tucké Royale, Jana Schlosser, Helena Simon, Matilda Florczyk
musica dal vivo Jens Friebe
scene Jo Schramm
costumi Karoline Bierner
musiche Jens Friebe
video Mikko Gaestel
drammaturgia Aljoscha Begrich
produzione MAXIM GORKI THEATER
nell’ambito del festival UNITING BACKGROUNDS – THEATRE ON DEMOCRACY
traduzione di Lorena Bottan e Luca Stimoli – Eloquia snc, Godega di Sant’Urbano (TV)