FRANCESCA DI FAZIO | In quella che è stata – forse – l’ultima rappresentazione del tour del più recente spettacolo di Lucia Calamaro, La Vita Ferma, andato in scena lo scorso sabato 7 aprile al Teatro delle Briciole di Parma, (per la recensione dello spettacolo si rimanda all’esatto articolo di Ilena Ambrosio), PAC ha incontrato i tre attori per un’intima intervista che indaga con leggerezza i risvolti personali del complesso lavoro attoriale che questo spettacolo richiede.

Dal rapporto con il proprio personaggio alla drammaturgia di pensiero di Lucia Calamaro, così si sono raccontati Simona Senzacqua, Riccardo Goretti, Alice Redini.

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La Vita Ferma è uno spettacolo in cui, secondo il metodo di scrittura di Calamaro, i personaggi vengono investiti dalle proprie proliferazioni verbali. Eppure qui si compie anche uno scarto rispetto agli spettacoli precedenti: i personaggi sono meno chiusi in rappresentazioni astratte o simboliche, sono persone che portano i vostri stessi nomi propri.
Come si è creata in scena questa relazione tra voi-stessi e voi-personaggi?

Riccardo – A questa relazione se ne deve aggiungere un’altra: quella tra noi e i pensieri di Lucia Calamaro. Come lei dice sempre, i suoi personaggi sono un incontro tra lei e l’attore. Una volta durante le prove ha esclamato: “il vostro cognome in scena dovrebbe sempre essere Calamaro: il nome il vostro, il cognome Calamaro”. Oltre a questo, i personaggi sono sempre in profondo legame con la personalità degli attori.
Simona – Il mio forse è il carattere che tra tutti è un po’ più “personaggio”, ma si origina e procede comunque da me.
Alice – Per me all’inizio questa rapporto col personaggio è stato difficile: io vengo dall’accademia, un’esperienza che pone la tecnica a copertura del sé personale. Lavorando con lei mi sono accorta di quanto tutto quello non fosse altro che un filtro e di quanto non funzionasse con le parole di Lucia, col suo teatro e con la sua regia. È stato difficilissimo portare in scena me stessa, dismettere la tecnica. Ho sempre pensato di non essere sufficiente sul palco, invece lei fa venire fuori tutta la ricchezza che solo tu puoi portare in scena. Infatti in quei momenti in cui mi rilassavo ed ero me, lei mi comunicava che era esattamente ciò che stava cercando. Io venivo da un’educazione teatrale in cui bisognava formalizzare tutto quel che veniva spontaneo. Ora non riesco quasi più a vedere uno spettacolo: mi sembra tutto finto! Non si riesce più a tornare indietro.
Riccardo – Verissimo. Per me vale la stessa cosa, anche se per quanto mi riguarda il processo è stato in un certo senso contrario: quando ho cominciato a lavorare con Lucia stavo quasi per lasciare il teatro e dedicarmi alla stand-up comedy nei locali, una forma di spettacolo molto diretta e autentica. Quindi a differenza di Alice io ero sempre più me stesso, in una direzione opposta rispetto a quella di una recitazione tecnicizzata. Quando ho incontrato il modo di fare teatro di Lucia ho scoperto che c’era ancora spazio per fare il teatro che a me piace fare. Si tratta di gusti differenti.

Ne La Vita Ferma il rapporto tra i vivi e i morti può avverarsi solo tramite un campionario degli oggetti lasciati in eredità. Come vi siete rapportati agli oggetti di scena?

Alice – Usare un oggetto in scena è sempre un andare oltre l’uso quotidiano di quell’oggetto, in questo spettacolo a me piace molto quando cadono gli oggetti: in ogni atto ricorre questa caduta dell’oggetto che dà uno stacco e crea lo spazio per la scena successiva.
Simona – La scena è per lo più sgombra, ma quello che c’è è assolutamente necessario e incredibilmente giusto. Lucia riesce a dare una funzione drammaturgica precisa agli oggetti e dunque al loro utilizzo scenico, come ad esempio nella scena in cui io nascondendomi scompaio dentro uno scatolone. Ogni scelta nasce da un confronto costante sulla scena durante le prove e le improvvisazioni.
Riccardo – Assolutamente. A me infastidisce quando in scena “aggeggiano”, quando gli attori in scena “cosano le cose”: ogni gesto va compiuto se c’è un motivo per compierlo.
Alice – Oltre agli oggetti, estremamente essenziali, anche il fatto che non ci siano molti cambi luce, effetti speciali, o musiche… è la prima volta che recito in uno spettacolo senza musica e sono rimasta stupita dalla potenza che si può comunque ottenere.
Riccardo – A me invece dispiace dell’assenza di musica, perché ne sono un amante. è una delle poche cose che posso “rimproverare”: secondo me con le musiche sarebbe uno spettacolo ancora più potente.

 

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Quali maggiori ostacoli avete incontrato? Quali cose sono state più difficile da assimilare, fare vostre?

Simona – Per quanto mi riguarda, trovo molto difficile la prima parte, l’inizio. Credo che anche per lo spettatore sia un momento di iniziale disorientamento, perché lì la scrittura è meno quotidiana, è un pensiero molto articolato, è espressione di un desiderio complesso. È così articolato che per me è stato quello più difficile da rendere naturale e fluido.
Alice – Per me come dicevo prima è stato portare in scena me stessa, fidarmi di me. È stato difficile anche portare in scena il pensiero, saperlo rendere a voce alta è stata una bella sfida.
Riccardo – Rispetto ad altre persone con cui ho lavorato mi è sembrato di riuscire a cogliere Lucia quasi al volo. Ho avuto una difficoltà quando avevamo da poco iniziato le prove: Lucia voleva a tutti costi che il mio personaggio in un dato punto piangesse, solo che io non riesco a piangere, né in scena né nella vita! Ma dopo alcune resistenze Lucia mi venne incontro e cambiammo la scena, adattandola in un modo per cui adesso è tra quelle che preferisco fare.

 

Che cosa invece avete trovato più calzante fin da subito?

Alice – A volte Lucia ti affida un testo, una parte che appunto senti molto tua o che comunque ti piace molto, ma non ti ci devi affezionare perché il giorno dopo potrebbe diventare di un altro personaggio o venire eliminata. È tutto in funzione della storia: ci sono cose che ti sembrano calzanti ma non ti devi affezionare per questo.
Riccardo – Confermo appieno. Anzi, è meglio anche se non glielo fai vedere! A volte più ti piace una parte più invece secondo Lucia non funziona.

 

L’atto del parlare è uno strumento che Calamaro utilizza per sviscerare l’animo dei personaggi, l’animo umano, per portare fuori il dentro. Come è stato impostato il lavoro, in modo che anche voi portaste fuori il dentro? Che lavoro avete compiuto voi personalmente con la vostra parte?

Simona – c’è un monologo del mio personaggio che tratta esattamente di questo. Ognuno di noi ha dentro un apparato, inteso sia a livello psicologico sia fisico: il cuore, il fegato, i polmoni… Un universo interiore che si avverte ma che non si conosce. Un dentro che non si sa come portare fuori. La scrittura di Lucia è pensiero che si cerca di verbalizzare, di esporre in parola. A volte è facile da pronunciare e fare propria, altre volte invece bisogna cercare molto di più, studiare con Lucia la direzione da prendere in modo che continui a risultare sempre come “pensiero”. A lei interessa molto che sia il pensiero a passare tra gli attori e il pubblico. Per questo nei suoi spettacoli lo spettatore si riconosce tantissimo: perché si ritrova in questi pensieri e ragionamenti. Non a caso il primo sottotitolo dello spettacolo era “un dramma di pensiero”.
Riccardo – Io penso sia un rovello di Lucia quello di cercare il modo più adatto di mettere in parola quello che si sente. Allo stesso tempo, nonostante questo obiettivo, credo che la veda anche come una sfida persa in partenza, sulla scia di quel che diceva Carmelo Bene: “sono in un deserto che parla a un altro deserto”.