ANTONELLA D’ARCO | Interno, giorno, cucina. Cucina di una modesta famiglia dell’entroterra del sud dell’Italia. Il luogo s’intuisce, ancor prima che dal vernacolo parlato dagli attori che fanno il loro ingresso sul palco dalla platea, dal tavolo in legno caldo; dalla cassapanca, che custodisce i preziosi di famiglia – provole, insaccati, capretto – ; dall’ inginocchiatoio su un lato della scena, confessionale a cui sono affidati i pensieri e i sogni dei personaggi; dal salame che pende sulla tavola, in attesa che si completi l’essiccatura; ma anche e soprattutto dal borbottare della pentola nella quale c’è il “sugo perpetuo” della nonna, defunta ormai da quattro anni.

Da quattro anni, infatti, il ragù fumante è ravvivato, come memoria di vita, ma una vita che non c’è più, quindi simbolo e monito di morte, da parte di “pater” Ovidio, “mater” Maria Guglielma e Ginesio, il loro figlio, i protagonisti del pungente e cinico 4 5 6 di Mattia Torre, regista oltre che autore dello spettacolo andato in scena al Teatro Nuovo di Napoli dall’11 al 15 aprile.

“Pater” e “mater” non sono gli unici termini mutuati dal latino inseriti nella scrittura drammaturgica, che anzi inventa una lingua nuova, potente, simbolica e icastica, commistione dei dialetti del Meridione. Si avverte il salentino, il siciliano, il campano. La parlata del Sud che identifica un territorio imprecisato, però sempre del Sud della penisola, ha un valore aggiunto, perché lì è il luogo dove si percepisce più sentito il legame con la famiglia, con la religione, con la tradizione. Elementi questi che Mattia Torre, attraverso la sua penna dissacrante, demolisce amaramente, divertendo il pubblico.

Una lotta verbale, intestina, violenta è quella che si fanno tra di loro i tre personaggi. Una lotta che, se da un lato fa emergere la famiglia come organismo a parte e separato dalla società che essa rifiuta, dall’altro la medesima famiglia applica le dinamiche usurpatrici, aggressive, regolate dal diktat mors tua, vita mea della società che rifugge. Il salame appeso sul tavolo pende come manna dal cielo; come pendola che scandisce il tempo, metronomo dell’azione scenica; come il sacco da boxe che i protagonisti colpiscono e schivano, mentre picchiano forte, a suon di parole, sulla loro pelle.

456 - Cristina Pellegrino, Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri

I contrasti emergono nella quotidianità del focolare domestico: la madre contro il padre; entrambi contro il figlio, accusato di voler sognare, di avere dei progetti e delle aspettative, oltre l’orizzonte di quella claustrofobica vallata contadina.

Ad orchestrare la spirale di violenza familiare è il pater, in scena Massimo De Lorenzo, quanto mai efficace a delineare il ruolo a lui affidato dalla regia, che istruisce a puntino gli altrettanto bravi Cristina Pellegrino, la mater, e Carlo De Ruggieri, il figlio, nella messinscena della recita di una cena, per lui importantissima che vede entrare in gioco un ospite d’onore, il personaggio di Treti Gargiulo, sul palco Giordano Agrusta. È Gargiulo a scandire la seconda parte dello spettacolo, anche lui, come gli altri, specchio e allusione della “crisi e valuri” diffusa. Il compiacente funzionario pubblico porta in casa la corruzione e il sistema di furberia che vige l’economia, quali ulteriori argomenti a cui mira la critica sottesa del testo di Torre. Gargiulo pensa addirittura di farsi prete per giovare degli sgravi fiscali che quella posizione consente. E, già in veste di benefattore dello spirito, regala a Ovidio la sua più grande felicità, la realizzazione del suo sogno. La felicità e il futuro sono tre numeri: 4, 5 e 6. In essi il padre ha investito il gruzzoletto di famiglia, investimento conforme alle idee propagandate da un Paese necrotizzato, fermo nel suo immobilismo, proteso verso la morte, uccidendo definitivamente il sogno e le ambizioni di Ginesio che sul quel gruzzoletto aveva puntato per costruire un futuro altro, lontano da casa.

Il principio che spinge Ovidio, segretamente, a compiere un atto, ancora una volta contro la sua famiglia e la volontà di provare a vivere, anziché resistere passivamente agli accidenti, è lo stesso che lo induce a impugnare il mestolo per girare il sugo della nonna, in una cottura lenta, fissa e immobile che destina, quel sugo, a restare nella pentola e a non condire mai un piatto di pastasciutta.

Marche Teatro, Nutrimenti Terrestri, Walsh
presentano
4 5 6
scritto e diretto da Mattia Torre
con Massimo De Lorenzo, Cristina Pellegrino, Carlo De Ruggieri
e con Giordano Agrusta
scene Francesco Ghisu
disegno luci
Luca Barbati
costumi
Mimma Montorselli
assistente alla regia Francesca Rocca
assistente ai movimenti scenici
Alberto Bellandi
produzione Marta Morico, Alessandro Gaggiotti
organizzazione Emanuele Belfiore