MILENA COZZOLINO | “Aret’ ‘a cupa” è espressione usuale nel meridione e indica una strada nascosta, luogo ideale per chi vuole appartarsi. La mancanza di luce rende la cupa scenario adatto a realizzare qualsiasi malefatta, perché lontana da occhi indiscreti. È il luogo che i genitori, da bambini, ci ammonivano di non attraversare. È il demonico bosco delle fiabe. Ed è proprio là che ci conduce Mimmo Borrelli, dal 10 aprile al 6 maggio, ne La Cupa tufacea dei Campi Flegrei, luogo carico del peso di tutto ciò che deve restare nascosto.

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Smontati palco e platea del Teatro San Ferdinando, la cupa attraversa lo spazio a partire dal fondo e il pubblico è tutt’intorno. Come passanti appostati, gli spettatori sono là non per caso, ma per capire cosa accade nell’antro delle paure più recondite. Per capire se negli ammonimenti dei genitori c’era qualche verità. Per guardare in faccia finalmente quel male da cui si distoglie lo sguardo; per attraversare il bosco delle malefatte più depravate. È questo il patto che Borrelli stabilisce col suo pubblico: questa volta non bisogna girarsi dall’altra parte. D’altronde nella scenografia di Luigi Ferrigno La Cupa è ovunque: accerchia gli spettatori, che si ritrovano immersi nell’agghiacciante oscurità di tutto ciò che non si vuol vedere.

Gli abitanti della Cupa di Borrelli sono esseri immersi nella natura degli istinti primordiali che li rende più vicini a piante e animali, segno inequivocabile restituito dagli abiti di scena realizzati dal talentuoso Enzo Pirozzi. Privi di coscienza, questi uomini e queste donne sono esseri incompiuti per difetto o per eccesso, nei quali si sente l’eco degli abitanti dei racconti di Kafka. Sono freak, perché figli di una natura contaminata, partoriti da una terra devastata dall’uomo, che ne ha fatto ventre da scavare e da usare. Come i personaggi dei racconti dello scrittore praghese sono uomini e donne trasfigurati dal rapporto con la paternità, che li rende metà umani e metà papere o alberi, oppure monchi, ciechi; e dove il male non colpisce il corpo ancora di più raggiunge l’anima, facendone pedofili, aiutanti segreti di questi ultimi, o produttori di figli destinati a diventare organi da trafugare.

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Sono tutto ciò che resta della tragedia greca. Calati nella notte delle tenebre, portano sulle loro spalle le colpe del mondo intero, come il personaggio di Giosafatte, in cui riecheggia il nome del padre, Giuseppe, interpretato da Mimmo Borrelli. Ma Giosafatte ‘Nzamamorte è un padre dimentico del suo ruolo e quindi anche delle sue colpe: cresce la figlia, Maria delle papere, come un fratello. Lei, la bella Maria, è cieca come chi non può vedere la verità: interpretata da una strepitosa e giovanissima Marianna Fontana, 20enne reduce dal successo del film Indivisibili di Edoardo De Angelis, ma alla sua prima vera esperienza teatrale, la Fontana recita e canta con incredibile grazia capace di sollevarsi al di sopra del codice borrelliano restituendone la cifra poetica con inconsapevole candore.

Forse i 2500 versi del dervisha di Torregaveta sono la sua opera più teatrale, nella quale mette a fuoco un Romeo e Giulietta in versione distopica, ambientato nella terra sfilacciata dei Campi Flegrei. La terra del Bradisismo, la terra che bolle sotto i piedi dei suoi abitanti. La terra che brucia, pronta a scoppiare da un momento all’altro. E la scrittura di Borrelli erompe come magma che ci corre accanto sentendo l’urgenza di raccontare tutta la banalità del male.

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La giovane è infatti innamorata di Vicienz Mussasciutto  (Renato De Simone), figlio di Tummasino Scippasalute – impeccabile l’interpretazione di Gennaro di Colandrea – e di Cenzina re Pupella (Autilia Ranieri), entrambi pedofili e stupratori, colpe e innocenze dei quali si incrociano con quelle della famiglia di Maria perdendosi nella genealogia del mondo, che casca, non solo letteralmente, proprio sulle spalle di Giosafatte, richiamandolo al suo ruolo di padre.
Intorno a questa vicenda si dipanano le azioni dei loro aiutanti negativi e positivi, interpretati da attori che hanno realizzato, con dedizione e profondo coinvolgimento, il progetto di Borrelli, e dei quali va sottolineato il grandioso lavoro: Maurizio Azzurro (Pagliuccone), Dario Barbato (Atamo Pacchiarano), Gaetano Colella (Crescenzo), Veronica D’Elia (Rachela), Paolo Fabozzo (Biaso Settanculo), Enzo Gaito (Pacchione), Geremia Longobardo (Sciarmazappe), Stefano Miglio (Ciaccone).

Profondamente diversa dalle altre opere borrelliane, La Cupa costituisce il primo passo dell’autore verso la sua trilogia della Terra destinata a fare pendant con la Trinità dell’acqua, elemento che attraversa le sue opere precedenti. Ma qui la sua scrittura poetica si fa più violenta, perché dominante diviene l’elemento maschile: il padre stupratore, inerme, incapace, sfruttatore del corpo, negatore del suo ruolo, e solo in sogno, forse, salvatore dei suoi figli.
È un’opera destinata a essere più che una metafora distopica della realtà, perché le parole poetiche e le immagini del teatro di Borrelli attraversano la carne e scompaginano l’immaginario: si esce dal teatro svuotati catarticamente delle contraddizioni universali che attraversano la nostra epoca e della paura dei mali che feriscono oggi i nostri corpi.

Una liberazione che avviene soprattutto nella seconda parte della narrazione scenica, dopo che 1h e 20 di spettacolo hanno riempito la misura della nostra sensibilità dell’insostenibile verità delle parole, che scavano nell’anima con la stessa violenza con cui l’uomo scava nel ventre della terra. Le azioni fisiche degli attori e la musica eseguita dal vivo da Antonio Della Ragione dominano tutta la prima parte, creando il palpito di un terrore che pulsa violento contro la pelle degli astanti.
La seconda dipana invece i nodi dell’azione tragica e la parola diventa protagonista assoluta e con essa il suo cantore Borrelli. La scelta espressiva va verso la ricomposizione estetica dei moduli dissonanti e violenti iniziali, regalando il sogno di un cambiamento possibile, oltre ogni ferita, quando la parola e la musica si fanno più dolci e lasciano intravedere la luce della bellezza che fende le ferite mortali.

A margine, va fatta menzione delle polemiche che negli ultimi giorni si sono scatenate sulle pagine de La Repubblica Napoli in merito all’impossibilità di far girare questo allestimento, sicuramente meritorio per l’ispirazione, il lavoro profuso e il talento messo in campo. Un’impossibilità di fatto determinata dalle leggi cui sottostanno le produzioni dei teatri nazionali, ma che certamente è determinata anche dal particolare allestimento che scompagina totalmente lo spazio scenico, stabilendo una necessaria fruizione dall’interno, che forse rende La Cupa uno “spettacolo da festival” più che da Teatro Nazionale.
La dissonanza resta la cifra espressiva privilegiata da Borrelli, che determina anche la possibilità che una parte della platea (una misura minima) lasci la sala poco dopo l’inizio della messinscena; questo almeno è quanto accade nelle due sere in cui è stato visto lo spettacolo.
Si tratta di quella parte di pubblico che non accetta di sedere su una poltrona scomoda, di venire a patti con l’autore, che non si lascia condurre al centro della cupa oscura. Un pubblico probabilmente abituato alla glassa del cartellone del Teatro Nazionale di Napoli. Un piccola parte di pubblico che dà però forza all’azione di chi resta e partecipa. Così come le polemiche, in fondo, scatenano un confronto necessario che si realizza di fatto ogni volta che si crea vera cultura e nuovi codici.

 

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LA CUPA
FABBULA DI UN OMO CHE DIVINNE UN ALBERO

versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
disegno luci Cesare Accetta
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale