ALESSANDRA PRATESI | Il teatro è una questione di punti di vista. Ce lo suggerisce anche l’etimologia, che dal verbo greco theàomai (“guardare”) trae la parola “teatro” a indicare prima l’insieme degli spettatori, poi il luogo delle rappresentazioni. Ce lo dimostra un giovane drammaturgo napoletano, Antonio Piccolo, con il suo Emone. La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato. È una sceneggiatura non originale, una riscrittura del celeberrimo mito di Antigone, vicenda fissata da Sofocle ma attraversata senza requie nel corso della modernità da letterati e filosofi come Alfieri e Hegel (per ricordare solo i big). Più recentemente, nel 1966, a rispolverare il mito dei Labdacidi era stato il poeta greco Ghiannis Ritzos con una riscrittura della storia dal punto di vista della mansueta e remissiva sorella dell’eroina, Ismene. Uno stesso gusto per la materia mitica era stato di Friedrich Dürrenmatt ne La morte della Pizia (1976), in cui alla voce di un’anziana e irriverente Pizia viene affidato il racconto dell’impossibile intreccio famigliare di casa Edipo. Cosa pensasse Emone (cugino e promesso sposo di Antigone) della follia dilagante in famiglia è l’oggetto del cunto di Antonio Piccolo. Vincitore del Premio per la Nuova Drammaturgia Italiana promosso dalla Fondazione P.L.A.TEA. (2016), pubblicato da Einaudi, è stato in scena in prima nazionale al Teatro San Ferdinando di Napoli e ad aprile è in tournée con tappe a Roma (Teatro India), Bologna (Arena del sole/Sala Thierry Salmon) e Torino (Teatro Gobetti).

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Ph. Marco Ghidelli

«Di Emone non ci si ricorda – afferma Marcello Manzella, un genuino e convincente Emone – perché si ritrova in una storia più grande di lui». Emone dichiara da subito la sua appartenenza ad una famiglia dannata, in cui l’infelicità è direttamente proporzionale al sangue blu: «mai s’era visto tanto lustro accompagnarse a tanta scalogna: incesti, muorti accisi, orbi, guerre famigliari, guerre civili…». Da bambino  sognava di era diventare medico dei poveri e delle poverelle, ma quando capì di essere destinato al governo del regno decise che sarebbe stato medico dello spirito: portando all’estremo la metafora della «fevra», per la quale la peste è tanto fisica quanto spirituale, Emone vuole essere il re medico capace di curare i mali della società e di garantire nuova vita a Tebe, con esplicito riferimento al Rinascimento fiorentino dei Medici. Per superare l’impasse giuridica paradossale del divieto di seppellire il cadavere di Polinice, il giovane Emone, democratico e fiducioso, propone una mobilitazione collettiva del popolo, una sorta di flash mob. È un visionario e un sognatore che crede nella condivisione del potere con il popolo: utopia destinata presto a frantumarsi davanti all’irremovibile visione totalitaria ancien régime del padre e re Creonte, sulla scena un Paolo Cresta in sedia a rotelle. Legislatore per antonomasia già in Sofocle, Creonte appare qui imprigionato nella condizione che lo caratterizza e che lo condanna. Immobilizzato dalle sue convinzioni, non accetta il dialogo; è il re villain e, come il collega shakespeariano Riccardo III, vede la sua deformità morale riflessa nel fisico. Letture simboliche e funzionalità scenica procedono di pari passo: la fisicità del sovrano sarebbe stata troppo ingombrante negli spazi ridotti della scena. Sua arma per esprimere una ragion di stato aggressiva e follemente cieca è una voce roboante e rutilante, potente, urlata.
Antigone, in absentia nel testo, è Valentina Gaudini in scena. Non parla e non interagisce con altri personaggi. Appare e scompare, canta in lingue antiche, è delineata come figura cristologica votata al martirio distante da tutti gli altri personaggi. Ismene, sorella-cugina-cognata, si inserisce nella coppia di promessi sposi come innamorata, non ricambiata, di Emone. Spalla e antagonista dei personaggi maschili, alter ego della più famosa sorella, il ruolo richiede grande duttilità. L’interprete, Anna Mallamaci, assicura il giusto equilibrio, passando da toni scherzosi, amorevoli e civettuoli, a toni lirici e drammatici, mantenendo alta la professionalità nel controllo di nel controllo di gesti e parole.
Non solo la politica, l’etica e i massimi sistemi, ma anche il sentimentale e il comico trovano spazio nella contaminazione di generi, mitologie e punti di vista. Risate garantite con la Guardia/Messaggero (Gino De Luca). I modelli su cui è plasmato il personaggio, già espliciti alla lettura del testo, sono sottolineati dalle scelte registiche: al buon intenditore quel «addomando perdonanza Eccellenza» rivolto a Creonte, richiama le fragorose entrate in scena dell’agente Catarella nell’ufficio di Montalbano. L’innesto comico pervade anche la lingua: con effetto misto tra il solenne e il comico la Guardia invoca la «Santa Madre Bedda di Zeus» e la stessa viene apostrofata dallo spazientito Creonte con un «Pollicinella che non sei altro». Della maschera del servo-zanno della commedia dell’arte condivide movenze e parlantina, e la preoccupazione di assicurarsi la pancia piena.

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Ph. Marco Ghidelli

Regia, scene, costumi e luci sono progettate da Raffaele di Florio. Partenopeo di origine, scenografo di formazione, spesso impegnato in produzioni liriche, nei confronti di Emone è stato fedele scudiero, mettendo al servizio del testo la sua arte e la sua esperienza. Costruisce una drammaturgia scenica su più livelli a supportare, reificare, arricchire il testo di Antonio Piccolo. Nessun sipario. Al centro della scena una giostra che ruota, a indicare il tempo circolare del mito e dei corsi e ricorsi storici. La logica tradizionale dello schema entrate-uscite è scardinata. La giostra risulta abbandonata, con strati di cellofan a coprirla come in una scena del crimine, come le lenzuola bianche sopra i mobili in una casa disabitata. Il senso di desolazione e squallore di una periferia abbandonata invade la scena e stride con la sacralità richiamata dalla forma ottagonale, della giostra come dei battisteri. Le luci fredde e psichedeliche sulle tonalità dell’azzurro e del giallo-verdastro, nel buio totale assurgono a simbolo aprendo uno squarcio tra le storture ad alta tensione da guerra civile e fratricida. I vestiti sono grigi come le esistenze di questa famiglia dilaniata dai lutti e dall’odio; soli risaltano i punti di rosso sangue e rosso poropora delle calze di lana della Guardia, del cappotto militare di Creonte, del soprabito di Antigone che, penzoloni, testimonia del suo suicidio.

I personaggi del cunto di Antonio Piccolo parlano una lingua arcaica, passionale, evocativa. Ha le sue radici nel dialetto napoletano, di cui condivide la carnalità, ma ha l’eleganza austera del latino. Appartiene a nessun luogo e a tutti i luoghi, come solo la lingua del mito deve fare. E così Emone, Ismene, Creonte e la Guardia parlano una lingua ibrida ricalcata sul modello de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (omaggiato nel titolo) o del più nazional-pop Andrea Camilleri autore di Montalbano, ma anche di Troppu trafficu ppi nenti, riscrittura in siculo della shakespeariana Much Ado about Nothing. I riferimenti al contesto culturale condiviso dal pubblico si concretizzano sulla scena: il suicidio di Antigone è accompagnato dal cadavere di un cavallo (come non pensare alla scena omologa de Il Padrino?) e la rievocazione metaforica e metanarrativa di un episodio della guerra di Troia avviene attraverso pupazzi della tipologia e della consistenza che si possono trovare nei presepi napoletani. L’accento territoriale è sottolineato dalla scelta delle Folk Songs di Luciano Berio come colonna sonora dello spettacolo in una riscrittura firmata Salvio Vassallo. L’apertura e la chiusura dello spettacolo, in particolare, sono caratterizzate dai ritmi popolari da girotondo, con l’insistenza del motivo «Tradèra ladèrida rèro» da Malurous qu’o uno fenno. In una particolare declinazione del dialetto occitano dell’Auvergne, che aggiunge intrigo antico all’impasto linguistico del testo, si canta una verità universalmente riconosciuta: la triste condizione dell’uomo a prescindere dall’avere o no una moglie contrapposta alla felicità della donna, se ha il marito che vuole o se non ha nessuno. Cunto nel cunto. Sembra la storia di Antigone che sposa un’idea e per essa muore, felice a modo suo, e di Emone, che suo malgrado deve rinunciare allo sposalizio e infine si dà la morte. È fermo immagine, un cambio di luci ed Emone chiarisce: «non mi sono acciso per amore di Antigone, ma perché non era ancora il tempo mio».

Emone. La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato

Liberamente tratto dall’Antigone di Sofocle
Riscrittura di Antonio Piccolo
Regia, scene, costumi e disegno luci Raffaele Di Florio
Musiche Salvio Vassallo
Interpreti Paolo Cresta (Creonte), Gino De Luca (Guardia), Valentina Gaudini (Antigone), Anna Mallamaci (Ismene), Marcello Manzella (Emone)
Assistente scene e costumi Chiara Pepe
Direttore di scena Nicola Grimaudo
Datore luci Christian Paul Ascione
Fonico Diego Iacuz
Sarta Francesca Colica
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
In collaborazione con P.L.A.TEA Fondazione per l’Arte Teatrale
Testo vincitore del Premio Platea 2016

Visto al Teatro India di Roma
10 aprile 2018

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