Kinkaleri - I Love You TOSCA_ ph Guido Mencari
I Love You TOSCA @ Guido Mencari

MATTEO BRIGHENTI | C’era una volta l’eccesso. Toni marcati, gesti evidenti, sguardi ammiccanti. L’iperbole si direbbe la scuola di pensiero sia per volgere in fiaba una storia da grandi, come I Love You TOSCA dei Kinkaleri sia, viceversa, per volgere in storia da grandi una fiaba, come Briciole di Adelaide Mancuso, Cenerentola e Pinocchio di Joël Pommerat, regia di Fabrizio Arcuri.
Bambini e adulti vengono trattati allo stesso modo. Punto di arrivo e di partenza di questa sorta di “confronto incrociato” è l’idea che il racconto debba esaurirsi nella trama. Sfumature, sviluppi, processi, lasciano spazio al punto di vista, alla libertà di riflessione e immaginazione. Ma qui ogni passaggio è sottolineato con colori decisi, tagli netti, cambi repentini (un’andatura simile a quella delle Belve di Pirozzi/Civica).
Tutto è ugualmente importante e la “morale” si perde in un’infinità di dettagli, avvolti da uno strato di ironia rassicurante. Il cattivo non è poi così cattivo, il male non fa poi così male. Tuttavia, come direbbe G. K. Chesterton, fin da bambini sappiamo bene che i draghi esistono. È inutile, forse sleale, minimizzarli con leggerezza. Le fiabe sono nate per questo: narrare che i draghi possono essere sconfitti.
Dopo Turandot e Madama Butterfly il collettivo artistico Kinkaleri conclude con I Love You TOSCA la trilogia di opere di Giacomo Puccini riadattate per bambini (dai 7 anni in su), non disdegnando, però, nemmeno i grandi. L’operazione è presentata come una rigorosa riscrittura, innovativa e, insieme, filologica, per riscoprire vivacità e potenza del linguaggio operistico. Al debutto al Teatro Fabbricone di Prato, di fronte a un pubblico soprattutto di adulti, i Kinkaleri sembrano rimbalzare contro la Tosca al pari di Marco Mazzoni sui materassi-colonne in scena: dell’originale resta una pantomima, con la musica di Puccini in sottofondo e qua e là passi di danza, ambito d’elezione del collettivo.

Kinkaleri - I Love You TOSCA_ ph Guido Mencari
Foto di Guido Mencari

Una voce e una pila attraversano la gradinata al buio. Mazzoni/Cesare Angelotti sta scappando e trova rifugio in palcoscenico, con le morbide colonne su due file a indicare le navate della Basilica di Sant’Andrea della Valle a Roma. Il performer indossa un mantello con una sagoma umana gialla e quando dà voce a Mario Cavaradossi lo gira mostrandone una blu, poi ancora un’altra rossa per Scarpia. Un “superpotere” svolazzante che spezza il ritmo dell’azione, senza essere sostenuto da un radicale cambio di intensità, postura o fisicità.
I protagonisti maschili sono tutti per uno, Tosca invece è Yanmei Yang, una per tutti loro, il vestito nero e lo scialle rosa. Ha il compito di rappresentare la lirica, anche se è più il tempo dedicato al recitativo, invero rigido, che al cantato. Intona Vissi d’arte sotto un occhio di bue e con i sovratitoli, quando Cavaradossi è in prigione e Scarpia è pronto a concedergli la grazia, a patto che Tosca gli si conceda. Lei però lo uccide, schiacciandolo con un materasso-colonna con il disegno di un coltello.
Yang rientra spingendo uno stand appendiabiti ricolmo prima dell’inizio del III atto della Tosca. È una cantante e ha bisogno dell’aiuto degli spettatori per prepararsi al meglio. Il teatro nel teatro, già accennato all’inizio con la scelta di varcare la soglia del palco, pare prendere vigore, magari in vista della falsa-vera fucilazione di Cavaradossi. Ma si dimostra ora un pretesto per chiedere se, in definitiva, la vicenda è stata seguita per filo e per segno; alla fine servirà per canzonare il dramma, facendo il gioco del potere che si vorrebbe stigmatizzare.
L’innovazione e riscoperta di I Love You TOSCA ci appaiono, dunque, alla stregua di un’attività di animazione o di un programma da Tv dei ragazzi. Il contemporaneo è l’uso di una modernità che non aggiorna l’antico, semmai gli toglie fascino e mistero: Mazzoni/Cavaradossi canta in playback E lucevan le stelle registrando un videomessaggio al cellulare.

Briciole - Adelaide Mancuso_ ph. Isabella Ghiddi (1)
Briciole @ Isabella Ghiddi

L’amore, la gelosia, il tradimento, la vendetta, che legano a morte Angelotti, Cavaradossi, Scarpia e Tosca, mandano ugualmente in Briciole, da un lato, Artemisia, il suo principe e Violante, dall’altro lato, una famiglia mafiosa di Palermo. Il monologo, scritto da Adelaide Mancuso e Francesco Niccolini e da lei stessa interpretato con la regia di Anna Meacci, fa parte della rassegna SEI Seincontri.Sei, inaugurata al Teatro Comunale di Antella, Bagno a Ripoli (provincia di Firenze), da Sottopelle di Giulia Vannozzi.
In scena ci sono solamente due sedie. Su quella di sinistra è appoggiato uno scialle bianco e un paio di scarpe bianche, su quella di destra un vestito nero e un paio di scarpe nere. Mancuso entra con addosso un abito da sposa anni Quaranta, un filo di rossetto, i ricci voluminosi tirati indietro, i piedi scalzi. Subito si apre al contatto diretto con il pubblico: ha bisogno che le faccia sentire i propri “no”. Su di essi armonizza il rifiuto a sposarsi della principessa Artemisia.
La prima parte di Briciole, infatti, è ispirata alla favola calabrese Il reuccio fatto a mano, una delle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino (Mondadori). Mancuso scandisce con mimica evidente la storia di colei che ha impastato il suo proprio principe. Se fosse una ballerina, si direbbe che conti i passi. L’attrice si aggrappa con forza al testo, al disegno registico, entrambi molto descrittivi, e va alla continua ricerca del sostegno dei presenti, a cui si rivolge chiamandoli “signori”. Quasi fosse il loro consenso a darle la legittimità di trovarsi sul palcoscenico.
Il principe è di pane e pure muto come un pesce, perché non gli ha fatto la lingua, ma è comunque un uomo. Così, quando si presenta l’opportunità, tradisce Artemisia con la “femme fatale” Violante. La conclusione vira in horror il lieto fine dell’originale: come l’ha creato, Artemisia lo distrugge, mangiandolo pezzo per pezzo. Il dolore, dice Adelaide Mancuso ora affilata nella “pasta” della questione, è come il pane: salato e ti lievita dentro, ma per gli altri non vale niente, sono soltanto briciole, buone per le formiche.

Briciole - Adelaide Mancuso_ ph. Isabella Ghiddi (2)
Foto di Isabella Ghiddi

Sembra il punto di svolta per sollevare il “velo del fiabesco” che nasconde ciò che veramente intende affrontare, come, supponiamo, la dignità nel dolore, a cui accenna dopo lo spettacolo. E invece, il velo viene riabbassato immediatamente. Sulle note di Non credere di Mina si toglie l’abito da sposa, si infila il vestito, le scarpe nere e si raccoglie i capelli a crocchia.
La seconda parte di Briciole rivisita il mito di Teseo e Arianna ambientandolo in un palazzo nella Palermo di mafia tra gli anni Settanta e Ottanta, con il Minotauro figlio del tradimento della moglie di un boss (l’estate scorsa per Archivio Zeta era la quintessenza del poeta). I personaggi si moltiplicano e Mancuso li prende uno a uno come le carte dei tarocchi: li mostra, li spiega e poi li rimette nel mazzo. La narrazione procede a strappi fino al buio e silenzio di una cantina, dove l’innocenza viene allevata da mostro e accresce il rimosso della società.
L’impostazione rivela, adesso più che mai, un’impronta da one-woman show dato probabilmente dalla regista, Anna Meacci, che nasce attrice comica. Briciole, allora, avrebbe bisogno di essere sfrondato, diciamo, da artifici e pose da intrattenimento, per aiutare Adelaide Mancuso ad affrontare il suo Minotauro. Una sfida che, secondo noi, è il vero filo conduttore tra le due parti del lavoro. Forse, il teatro stesso è il “mostro”, quella “stranizza d’amuri” che Arianna da ultimo culla tra le braccia, accennando la canzone di Franco Battiato.

Fabrizio Arcuri - Cenerentola_ ph. Isabella Ghiddi (1)
Cenerentola @ Isabella Ghiddi

Accettare ciò che non si può cambiare e non mentire a se stessi è il trait d’union tra Cenerentola e Pinocchio nella versione strampalata di Joël Pommerat, presentati uno dopo l’altro al Teatro Cantiere Florida di Firenze. L’ultimo appuntamento della stagione è, a nostro avviso, una maratona di avanspettacolo spinto, una sarabanda di stereotipi, giochi di parole, scambi di persone. Il regista Fabrizio Arcuri asseconda il crescendo di scenette, dal primo al secondo lavoro, guidate da narratori-presentatori al microfono.
Lo spunto di Cenerentola è l’elaborazione del lutto nei bambini. Sandra (Cenerentola) ha un orologio sveglia rosa da parete al collo: il tempo che ha davanti appartiene al ricordo della madre morta. Deve abituarsi al male per non sentire troppo la sua mancanza. Per questo, accetta ogni sopruso, facendo il contrario del Bartleby di Herman Melville, ovvero “avrei preferenza di sì”. Si attacca al passato al pari della matrigna, che vuole (e crede di) essere sempre giovane.
L’amore per il principe apre gli occhi di Sandra fuori dall’asfissia del lutto. Si sono trovati e riconosciuti. Lui, difatti, è nella stessa condizione: ha addosso una cornetta del telefono, aspetta una chiamata della madre, che non arriverà mai, perché è morta anche lei. Vivere significa capire che non è dolore il tempo che passa, è vita. Questa nuova consapevolezza, però, è solo di facciata, un colpo di spugna che cambia le battute, ma non le intenzioni, né la mimica degli attori. Il loro “sentire” rimane immutato, tanto da svelare i personaggi, una volta per tutte, per ciò che realmente sono: il testo che hanno in bocca.

Fabrizio Arcuri - Pinocchio_ ph. Isabella Ghiddi (3)
Pinocchio @ Isabella Ghiddi

Non “imparano” davvero la lezione Sandra e gli altri, si rifiuta di farlo, per statuto, Pinocchio. Anche lui senza madre, è stato intagliato dal padre falegname da un albero, il suo unico amico. Le attenzioni date al burattino riempiono la vita vuota di Geppetto. Si può dire che cominci a vivere e, di conseguenza, a preoccuparsi: il figlio vuole semplicemente divertirsi, essere ricco e non smettere di ridere.
L’avvio di Pinocchio è da programma contenitore, si alternano alla stregua di ospiti in studio Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe, il Giudice, gli Assassini, la Fata. Pinocchio è vittima della società e quindi delle sue bugie: preferisce essere impiccato piuttosto che essere considerato povero. Rivendica la libertà di fare ciò che vuole. Si piegherà al realtà così com’è nel momento in cui diventerà umano e scambierà la felicità con la verità.
Arcuri pare comportarsi allo stesso modo con lo spettacolo. Dà corso a un vortice di stili e di generi teatrali alla rinfusa che culmina nell’anarchia della scena della Balena. L’intera compagnia è schierata in proscenio e l’uno si parla sull’altro, senza ordine, distinzione o direzione. Sono come le figure con teste di animale in apertura e chiusura: ognuna va per sé, ma il senso manca per tutte. Finché non arriva la realtà della fine, che piega Pinocchio alla verità del sipario.

I Love You TOSCA

opera in tre atti liberamente tratta da Tosca di Giacomo Puccini
adattamento, regia, coreografia, scene, costumi Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco
con Yanmei Yang, Marco Mazzoni
produzione Kinkaleri
in collaborazione con Teatro Metastasio Stabile della Toscana, FTS Fondazione Toscana Spettacolo
con il sostegno di Regione Toscana, MiBACT – Dipartimento dello Spettacolo
un ringraziamento speciale a Marco Orciatici, Marco e Leonardo Berti-Acril Nova, Cristina Zamagni, Michel Bergamo, Niccolò Magrelli

Teatro Fabbricone
Prato
Sabato 21 aprile 2018

Briciole

testi Adelaide Mancuso e Francesco Niccolini
con Adelaide Mancuso
regia Anna Meacci con la collaborazione di Roberto Aldorasi e George Perla
produzione Collettivo Teatrale Informale

Teatro Comunale di Antella
Bagno a Ripoli, Firenze
Giovedì 26 aprile 2018

Cenerentola / Pinocchio

di Joël Pommerat
regia Fabrizio Arcuri
con Luca Altavilla, Valerio Amoruso, Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Elena Callegari, Irene Canali, Rita Maffei, Aida Talliente
e con Sandro Plaino (nel cast di Pinocchio)
spazio scenico Luigina Tusini
assistente alla regia Matteo Angius
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
in collaborazione con Accademia degli Artefatti

Teatro Cantiere Florida
Firenze
Domenica 22 aprile 2018

1 COMMENT

  1. ma davero davero? nun c’ho capito un ciufolo fracicato. come te vengono ‘ste belle elucubrazioni?
    a me è apparsa solamente na gran confusione senza idea alcuna, mah, sarò che non sono assai colto o ribaltando ancora Bartleby, sò troppo ‘gnorante per geni riconosciuti come arcuri.

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