GILDA TENTORIO | Il Festival L’Ultima Luna d’Estate è attento alle migliori novità del panorama teatrale: mercoledì 5 settembre, nella cornice di Villa Banfi a Carnate la compagnia Capotrave presenta La lotta al Terrore, da un anno in tournée per l’Italia con grande successo. In questo intelligente lavoro, ritmi concitati, tensione, ironia e attualità sono gli elementi-base: la vita di un sonnacchioso paese di provincia è scossa all’improvviso da un evento straordinario, la minaccia di un attentato terroristico nel supermercato! Abbiamo raggiunto il regista Luca Ricci e uno dei suoi attori, Gabriele Paolocà, per alcune anticipazioni.

Oltre alla suggestione dell’attualità, da dove è nata l’ispirazione per questo spettacolo che hai ideato insieme a Lucia Franchi?

Luca Ricci: Noi che ci occupiamo di teatro lavoriamo spesso con le amministrazioni pubbliche, un ambiente che genera rabbia e frustrazione. Lo spettacolo è un po’ anche la nostra “vendetta”. Facciamo il ritratto dell’abitudine tipica del nostro Paese, soprattutto nell’amministrazione pubblica ma non solo, di delegare la responsabilità. Tutti cercano un modo per scaricare la palla ad altri ed è una dinamica quasi quotidiana che almeno una volta tutti hanno sperimentato. Quindi abbiamo preso ispirazione da questo ambiente, apparentemente poco poetico ma affascinante. Un tema anche “politico”, che può portare a esiti assurdo-comici, che si creano cioè quando c’è lo slittamento fra l’inadeguatezza del soggetto e i problemi che gli sono davanti. La responsabilità è il grande problema dell’Italia. Poi naturalmente abbiamo legato questo tema alla tragica attualità degli attentati terroristici.

Foto 3 LA LOTTA AL TERRORE - Luca Del Pia
© Luca Del Pia

Vi hanno guidato anche sollecitazioni letterarie?

Luca Ricci: In un certo senso sì: l’umanesimo di Albert Camus, che è un tentativo di comprendere il presente. Certo, Camus rifletteva sulla liberazione dell’uomo attraverso la violenza e la reazione della società. D’altra parte tutto il pensiero che sta dietro alla violenza del terrorismo di questi anni, a teatro io non vorrei mai rappresentarlo in maniera diretta (ad esempio illustrando il progetto del terrorista che costruisce la bomba e valuta dove farsi esplodere), perché è più importante andare dentro il tuo mondo, partire da quello che conosci. L’attentato nel nostro lavoro è un pretesto per indagare la paura, la diffidenza, il non prendersi la responsabilità. Questo spettacolo parla di tutti noi e del nostro mondo.

Rispetto alla data del vostro debutto (luglio 2017) ritieni che oggi nel 2018 la prospettiva sia cambiata, in voi artisti come pure nella ricezione del pubblico?

Luca Ricci: È un aspetto che mi facevano notare i miei attori: «Queste parole pronunciate oggi sembrano più violente rispetto a un anno fa». Eppure a mio avviso c’era già tutto anche prima: la volontà di chiudere gli occhi, di vedere la diversità come problema e non come opportunità. Oggi il riverbero sembra più potente, ma in realtà tutto era già in nuce da prima, cioè quello di una barbarie montante e sempre più forte, che poi si sfoga negli istinti più bassi. Non voglio con questo dire che il nostro testo è profetico, soltanto che certe tendenze già c’erano e ora naturalmente sono più evidenti perché sono esplose. D’altra parte il compito del teatro è leggere i segnali che poi magari si manifesteranno.

E tu, Gabriele, come vivi da attore questo testo rispetto a un anno fa? Lo senti “diverso”, capace di parlare al pubblico in modo più immediato?

Gabriele Paolocà: Questo recente incattivimento post-elezioni prima fa male e poi disorienta. Non è più chiaro chi sia il nostro prossimo, nel nostro caso lo spettatore. Prima credevo di sapere a chi mi rivolgevo: ho sempre creduto che nella nostra nicchia teatrale la si pensasse un po’ tutti allo stesso modo, un piccola famiglia dove le direttive culturali e politiche fossero, più o meno, sempre le stesse. Pensieri che aprivano altri pensieri, ad esempio sull’utilità della cosiddetta “denuncia” in un mondo dove però, bene o male, la pensiamo tutti allo stesso modo. Adesso invece non ne sono più così tanto convinto. Il mio personaggio ad esempio rappresenta una società che teme il cambiamento e in questo conservatorismo nasconde la paura di un mondo in continua evoluzione. Nazione, Dio, famiglia sono per lui valori utili all’occorrenza, rispolverati per elemosinare briciole di autoaffermazione. È la paura a nascondere chi siamo veramente, che fa rifuggire nell’ignoranza, ecco cosa vuole dire il mio personaggio. Ma poi, per fortuna e purtroppo, non riesce a nascondere la sua vera pasta, che è fatta di buoni sentimenti e di una tendenza inconsapevole al Bene.

Lo spettacolo lascia una luce di speranza?

Luca Ricci: Vedo tanti che hanno voglia di cambiamento e di dire no, nella realtà che viviamo. Ma lo spettacolo non apre volutamente alla speranza. Nessuno dei tre personaggi è salvato. Lo spettatore non esce con un senso di sollievo, perché tutti sono colpevoli. Certo, cerchiamo di comprendere i personaggi, di chiederci le cause delle loro debolezze e le motivazioni del razzismo. Per cui ci sono anche momenti di umanità, in cui ci rendiamo conto di come ci somigliano. Però noi siamo nel mondo e dobbiamo impegnarci a renderlo migliore di come lo abbiamo ricevuto. Ecco, nessuno di questi tre lo lascia migliore.

Vi aspettavate una risposta tanto positiva da parte del pubblico? Quali altri progetti avete nel cassetto?

Luca Ricci: In effetti è uno spettacolo che piace, molto diretto, ha intercettato in modo trasversale l’interesse di chi è aperto alle cose più sperimentali (perché c’è anche questo aspetto), ma anche altri circuiti. Stiamo lavorando intorno a un progetto dal titolo Piccola Patria: si tratta di una riflessione sulle identità che si rafforzano nella chiusura, cioè secondo il motto: «se stiamo tutti fra di noi, saremo più forti». Come abbiamo visto per la Catalogna, ma non solo.

Come si è svolta la collaborazione per questo progetto?

Luca Ricci: Ho avuto la fortuna di lavorare con un trio di attori diversi fra loro, ma molto generosi e straordinari. Conoscevo già Simone Faloppa, perché avevamo lavorato insieme circa sei-sette anni fa; Gioia Salvatori è un’attrice che viene dal teatro comico,  molto apprezzata a Roma; in quanto a Gabriele Paolocà, se gli si lascia campo libero, va e mostra tutta la sua energia. Fra l’altro sono contento di questa opportunità del festival Ultima Luna, perché per la prima volta faremo lo spettacolo in uno spazio aperto: sarà una sfida, ma è questo il bello del nostro mestiere!

Gabriele Paolocà: Luca lascia molto spazio durante le prove, ti permette di “indossare” il personaggio come meglio credi. D’altra parte è uno spettacolo che ti mette costantemente alla prova, questo grazie alla scelta di Luca di riadattarlo sempre a seconda dello spazio in cui ci troviamo. Quando è possibile, sfruttiamo la pianta circolare con gli spettatori seduti sul perimetro esterno e noi al centro, quando non si può, a volte viene fatto metà in platea e metà sul palco, a volte tutto sul palco. Questo all’inizio mi disorientava, ma poi ho accettato la sfida e adesso posso dire che questo lavoro è diventato per me una vera palestra attorale, in cui mettere in discussione i miei limiti e le mie possibilità.  Recitare con Simone e Gioia è stimolante. Anche loro, come me, sono due attori-autori. Siamo una razza tremenda, perché abbiamo una “visione” nostra e per essa capovolgeremmo il mondo. Giustificare questa visione ci rende necessariamente anche curiosi e aperti, e questa apertura ha permesso e permette tuttora uno scambio continuo e prolifico, che ravviva sempre il lavoro. E poi insieme ci si diverte tanto.