MATTEO BRIGHENTI | Una vita felice è passata da tempo. Chissà se è mai esistita davvero. Adesso, comunque, non si arriva a completare nemmeno un giorno intero. La sabbia che ci immergeva come Winnie di Samuel Beckett nei nostri “giorni felici” ha iniziato a scorrere a tal punto nella clessidra dello scontento che è rimasta solo un’ora di felicità: l’happy hour. Cioè, il momento in cui bar, pub, ristoranti, vendono gli alcolici a prezzi scontati.

Happy Hour_Silvia Gallerano, Stefano Cenci_ ph. Marco Pavanelli
Happy Hour @ Marco Pavanelli

La strenua ricerca del senso dell’esistenza si è involuta nella lotta affannata per dimenticarla in fondo a un bicchiere. Dire cose “giuste”, nei posti “giusti”, con gente “giusta”, è l’unica cosa che conta. Ormai vivere è apparire. E apparire è giocare a far finta di essere qualcun altro. Siamo una società di bambini nel corpo di adulti, al pari dei fratellini Ado e Kerfuffle, ovvero Silvia Gallerano e Stefano Cenci, diretti da Simon Boberg nell’Happy Hour di Cristian Ceresoli, l’autore della famigerata Merda.
Fanno i piccoli come i grandi si immaginano e aspettano che siano, con occhi sgranati, pose esuberanti, sempre su di giri. I nomi, per certi versi, parlano per loro: ado significa rumore e kerfuffle vuol dire confusione, stando al mondo anglosassone che ha inventato il termine ‘happy hour’. Senza l’uno non c’è l’altra, entrambi sono il prodotto eccitato del medesimo “big-bang” emotivo.
Un po’ slogan, un po’ mantra, tale espressione è ripetuta di continuo, a mo’ di parola magica in grado quasi di portare da sé fama, bellezza, successo planetario. Associata poi all’elenco di grandi città come Milano, Parigi, Beijing, fa la figura della vetrina nei negozi d’alta moda del centro: espone un lusso a beneficio di pochi ma, nonostante (o forse proprio per) questo, desiderato da molti. Del resto, Happy Hour è dedicato agli stilisti Stefano Dolce & Domenico Gabbana.

Happy Hour_Silvia Gallerano, Stefano Cenci_ ph. Marco Pavanelli
Foto di Marco Pavanelli

Così, la scena alla prima assoluta al Teatro Fabbrichino di Prato è composta di praticabili che formano un ring da sfilata o almeno passerella. Eppure, Gallerano e Cenci non si cambiano mai d’abito, in canottiera e mutande sono e restano. Semmai scoprono, verso la fine, il colore dell’uno sotto il costume dell’altra, a ribadire la mutua dipendenza per la reciproca sopravvivenza. L’iperbole del trasformismo è lo zapping incessante tra le loro confessioni e il paesaggio intorno, dove i genitori sono riprodotti a sessi invertiti, con la femmina che fa il padre e il maschio che fa la madre. Il “caos” permea non solo i nomi, ma anche i generi.
La danza, il calcio, il vicino, il trasloco, sono una normalità familiare corsa e detta, detta e corsa, in lungo e in largo. Ado e Kerfuffle frullano come se l’alcol fosse già in circolo e l’aperitivo notte inoltrata. Vanno a cento all’ora senza guardare la strada, pensano soltanto a tenere alto il tachimetro. La solitudine, la fragilità, l’innocenza, sono ben nascoste sotto la maschera dell’eccesso smodato: sembrano lasciarsi scivolare tutto addosso, come sudore nella pista da ballo dell’eterna gioventù.
Il vuoto che hanno dentro è però una presenza-assenza fisica, uno spazio concreto, ritagliato in mezzo al palco dall’incastro dei praticabili. Evocazione ora della cameretta, ora del “campo di concentramento” del divertimento in cui saranno deportati, una spiaggia dove chi non balla è perduto. Essa rappresenta plasticamente la «dittatura della felicità», come l’ha definita Alessandro Iachino nella sua intervista a Ceresoli su Teatro e Critica in occasione dell’anteprima al Funaro di Pistoia. Il suo approssimarsi è un cortocircuito che interrompe sistematicamente il normale flusso della quotidianità dei due fratellini, raffreddandone luci e passi, è un traguardo che incombe sulle loro teste, fino a possederle.

Happy Hour - Silvia Gallerano, Stefano Cenci_ ph. Marco Pavanelli
Foto di Marco Pavanelli

Si direbbe che provino a scappare da tutto questo. In ogni modo e con ogni mezzo. Il nodo è che ciò che dicono, magari anche pensano, non influisce su ciò che sentono e fanno. La loro sorte è bell’e compiuta, sta unicamente riaccadendo attraverso il racconto. Qualunque specie di catarsi, epifania, riflessione, sconta il sentore di ripetibilità e quindi falsità del momento: chi assiste è uno dei tanti a cui la storia è (stata e sarà) raccontata. Che importanza ha che sia proprio io o un altro? Il tour de force di Gallerano e Cenci, la loro prova di resistenza attoriale, alla quale il secondo aggiunge un di più di sornione distacco critico, si esaurisce dunque nell’esibire facce e smorfie per godere dello spasso apatico indotto nel pubblico, quanto nella risibile provocazione di una distopia più caotica che disturbante.
Il mercato produce sogni falsi, avariati, tossici, che avvelenano il cammino fuori casa. È una “morale” sottotraccia, intuibile appena. L’evidenza di Happy Hour pare, piuttosto, la nostra condanna di Ado e Kerfuffle qualsiasi a dover ingigantire la realtà, per ottenere l’attenzione che altrimenti non avremmo. Più semplicemente, per esistere. O meglio, nella terminologia dell’ultima generazione che insegue l’“happy second”: avere più like.
Ma Cristian Ceresoli ha iniziato a comporre il testo a partire dal 2007, la sua ulteriore inattualità deriva dallo spirito di quel tempo, che tintinnava ancora nel bicchiere. Infatti, un anno prima Ligabue cantava, con invero maggior incisività poetica: «sei già dentro l’happy hour / vivere vivere costa la metà / quanto costa fare finta / di essere una star?».

HAPPY HOUR

di Cristian Ceresoli
con Silvia Gallerano & Stefano Cenci
regia Simon Boberg
sonorizzazioni Stefano Piro
la canzone Caracal è della dj Blue Cat
produzione Frida Kahlo Productions (Milano, Londra), Teatro Metastasio (Prato), Teater Grob (Copenhagen)
con Richard Jordan Productions (Londra), Il Funaro (Pistoia)
distribuzione World Entertainment Company 

Teatro Fabbrichino – Prato
2 novembre 2018